Eric Gobetti (a cura di) - L'Italia e gli ustascia (1929-1945)
In L'Italia e gli Ustascia Eric Gobetti ha raccolto i saggi presentati nel 2023 nel corso di una giornata di studi sui rapporti tra il fascismo e il movimento nazionalista croato negli anni tra il 1929 e il 1945. Nella presentazione, il tema viene indicato come tra i meno studiati nella storiografia sul fascismo e tra gli ancor meno conosciuti dall'opinione pubblica; l'intento del libro, ricco di annotazioni e di riferimenti bibliografici, è dunque quello di fornire agli studiosi nuovi spunti di riflessione, e ai lettori meno preparati un quadro approfondito di una vicenda sostanzialmente sconosciuta.
Il primo saggio di Marco Baffo tratta de la politica estera fascista verso l'Europa balcanica. L'A. scrive che dopo il 1925 la politica estera fascista si sarebbe rimessa in continuità con quella liberale precedente, rivolgendo velleità irredentistiche e propaganda verso una futura conquista della Dalmacija. All'organizzazione e al sostegno di gruppi di oppositori interni al potere centrale jugoslavo come gli ustascia, i separatisti del Kosovo e la Vătrešna Makedono-odrinska revoljucionna organizacija in Macedonia, dagli anni Trenta si sarebbe affiancata una politica di distensione verso Beograd, soprattutto in chiave antitedesca, e una diretta a ridimensionare l'influenza francese nei Balcani. Il rovesciamento di Paolo Karađorđević nel 1941 avrebbe manifestato la volontà jugoslava di ritirarsi da ogni accordo con i fascismi; alla successiva e rapidissima invasione tedesca Roma avrebbe reagito senza decisione, ordinando avanzate limitate e occupando territori solo dopo la capitolazione. Agendo secondo il principio della debellatio -che avrebbe consentito di ignorare l'impegno a mantenere istituzioni e leggi esistenti in un paese occupato- Roma avrebbe quindi partecipato all'occupazione e allo smembramento del paese annettendo il sud della Slovenija e la Dalmacija, occupando il Crna Gora, ampliando la già controllata Albania con il Kosovo e mettendo sotto tutela formale la Nezavisna Država Hrvatska. Il saggio prosegue con uno excursus sull'occupazione e la riorganizzazione istituzionale dell'Albania, intraprese nel marzo 1939 dopo l'occupazione tedesca della Cecoslovacchia. Baffo descrive il funzionamento del sistema politico imposto da Roma per mezzo di un Luogotenente Generale e di consiglieri permanenti affiancati ai vari ministeri, e la fondazione di un Partito Fascista Albanese ricalcato su quello peninsulare, dall'impatto pressoché nullo per la società locale ma utile per accontentare le aspirazioni dei collaborazionisti in materia di guadagni personali. I pessimi risultati dell'aggressione alla Grecia nel 1941 avrebbero danneggiato agli occhi degli albanesi (collaborazionisti o meno) l'immagine dello stato che occupa la penisola italiana; di qui la nascita di un movimento partigiano e il risveglio del nazionalismo. Roma avrebbe assecondato il nazionalismo albanese accentuando il carattere locale delle organizzazioni fasciste, ricostituendo corpi armati, sostituendo i notabili più invisi, riducendo i poteri dei consiglieri permanenti e destinando alla proclamata Grande Albania il Kosovo e altri territori di confine. Il 25 luglio 1943, scrive Baffo, avrebbe messo fine a "ogni necessità propagandistica di simulare una reale indipendenza del Paese"; l'8 settembre poi avrebbe trovato le autorità ridotte ai minimi termini. Marco Baffo ricorda che proprio a Tirana, nei giorni successivi al collasso jugoslavo del 1941, sarebbe stato fondato un effimero "Comitato per la liberazione del Montenegro" destinato ad assecondare gli oppositori della monarchia di Beograd. La ripristinata indipendenza del piccolo Stato sarebbe stata dovuta alla volontà di Vittorio Emanuele III; Baffo riporta i passi con cui il Crna Gora sarebbe stato eretto a regno nominalmente indipendente. L'A. scrive di come ampie e sgradite perdite territoriali e la concomitante aggressione contro l'URSS avrebbero contribuito alla massiccia sollevazione popolare del 13 luglio 1941 guidata da cetnici e partigiani comunisti. La repressione manu militari avrebbe distrutto in dieci giorni la credibilità dell'occupante come portatore di giustizia e costretto Roma a sostituire con la direct rule le istituzioni locali ancora al loro posto. L'A. espone il tema degli accordi stretti con i cetnici dal governatore militare Pirzio Biroli, del precario equilibrio raggiunto nella politica e nell'amministrazione del Crna Gora e della repressione del movimento partigiano condotta con risultati più che discutibili dalla Milizia Volontaria AntiComunista. Baffo ricorda che l'iniziativa e la volontà tedesca avrebbero dissolto il movimento cetnico locale, stanti i formali legami tra i cetnici e il governo jugoslavo in esilio di Draža Mihailović. Secondo Baffo l'annessione della Slovenija meridionale sarebbe stata decisa su spinta del fascismo giuliano nel tentativo di distruggere l'irredentismo sloveno, "portando a un'occupazione su motivazioni deboli e confuse"; il saggio riferisce le vicissitudini dell'occupazione e dell'istituzione di un apparato amministrativo composto e diretto solo da occupanti, destinato comunque a fallire nella repressione del movimento partigiano nonostante l'appoggio degli anticomunisti della Bela Garda e il documentato impegno in tal senso del comandante della XI Armata Mario Robotti. La Dalmacija invece, regione importante per l'immaginario irredentista e della propaganda, sarebbe stata organizzata fin dal 7 giugno 1941 in un governatorato con le province di Zadar, Split e Kotor e affidata all'ex segretario del Partito Nazionale Fascista Giuseppe Bastianini. L'esistenza del governatorato e le politiche di assimilazione forzata ivi introdotte sarebbero state motivi di forte attrito con gli ustascia; dopo il 25 luglio 1943 il governo Badoglio avrebbe soppresso l'organismo, lasciando i poteri ai prefetti delle province. Baffo accenna in conclusione un confronto tra la Nezavisna Država Hrvatska e le altre occupazioni. Anche nel caso croato, come in Albania e in Crna Gora, Roma avrebbe tentato il ricorso alla comunanza dinastica allestendo un trono per un principe Savoia che non si sarebbe mai recato a Zagreb e non avrebbe neppure avuto un rappresentante. Lo stato croato avrebbe saputo avvantaggiarsi della rivalità tra potenze occupanti anche se la sua sistemazione territoriale avrebbe causato frustrazione fra le diverse fazioni collaborazioniste, dal momento che negli anni precedenti il conflitto Roma avrebbe fatto a ciascuna di esse promesse territoriali sugli stessi territori e che nel caso della Dalmacija la sovrapposizione avrebbe riguardato le stesse pretese fasciste. Baffo nota che anche nello stato indipendente croato le condizioni dell'ordine pubblico si sarebbero deteriorate progressivamente e rapidamente senza che le attività repressive -a volte anche controproducenti, come i massacri dei serbi da parte degli ustascia- costituissero un rimedio. Da Roma i collaborazionisti croati sarebbero stati incolpati per ogni fallimento e l'impegno militare sempre maggiore richiesto dall'affermarsi della resistenza avrebbe contribuito alla riduzione dei margini di indipendenza del governo locale, dalle temute propensioni filotedesche. Propensioni che avrebbero consentito allo stato croato di sottrarsi al crollo del precario impero fascista e di mantenere fino alla fine della guerra una sostanziale continuità istituzionale.
Simone Malavolti cura il secondo saggio, Il nazionalismo croato e gli ustascia tra fascismo e genocidio notando innanzitutto che l'iconografia più fruibile collega il leader ustascia Ante Pavelić a Adolf Hitler, Benito Mussolini e Alois Stepinac descrivendo i principali caratteri politici e ideologici assunti dal movimento negli anni della sua maggiore "esposizione". Dal 1929 gli ustascia, lett. gli "insorti", si sarebbero in realtà richiamati alla continuità coi movimenti nazionalisti precedenti. Malavolti riassume l'ideologia nazionalista del Partito puro del diritto (ČSP) fondato attorno al 1860 in polemica con le formazioni jugoslaviste da Ante Starčević e Evgen Kvaternik per rivendicare il diritto storico croato ad ottenere un proprio stato nazionale. La nazione croata, esistente da secoli come avrebbe attestato una corona passata prima in mano ungherese e poi in mano austriaca e appartenente alla costruttiva "razza nordica", avrebbe dovuto essere "ripulita dalle impurità" delle successive migrazioni -soprattutto da quella serba nelle Krajine- e ripristinare un proprio territorio più o meno vasto, soprattutto a detrimento di serbi considerati un aggregato incapace. Il saggio tratta di come dopo la prima guerra mondiale il ČSP si sarebbe mosso contro l'unificazione degli slavi del sud proponendo una cultura vittimistica della sconfitta e operando negli anni successivi in favore di una secessione croata -anche con la costituzione di formazioni paramilitari- pur in condizioni di isolamento e di inazione a fronte della buona rappresentatività del Partito contadino di Stjepan Radić. L'assassinio di Stjepan Radić nel 1928 da parte di un deputato montenegrino e il conseguente avvio di una dittatura personale da parte del sovrano Aleksandar Karađorđević avrebbero indotto il già attivo Pavelić a rifugiarsi nella penisola italiana; Malavolti descrive la fondazione del movimento clandestino grazie ai finanziamenti fascisti e il suo carattere nazionalista e antiserbo molto prima che cattolico. L'assassinio del re a Marsiglia avrebbe indotto i vertici del fascismo a mettere sotto controllo Ante Pavelić e le centinaia di attivisti che lo avevano seguito e a cambiare politica nei confronti di Beograd, senza precludersi la possibilità di ricorrere al movimento ustascia nel caso lo scenario lo avesse reso vantaggioso. Date le condizioni venutesi a creare nel 1941, le poche centinaia di uomini animati dal rancore verso i serbi e verso Beograd che costituivano l'organizzazione del movimento avrebbero effettivamente potuto procedere a forgiare un proprio stato secondo il dichiarato principio della purezza nazionale. Il saggio descrive come la Nezavisna Država Hrvatska avrebbe avuto una legislazione copiata da quella nazionalsocialista, che sarebbe stata il fondamento giuridico per la soluzione del "problema serbo" all'interno di nuovi confini che di serbi ne avrebbero compresi quasi due milioni. Nonostante la mancanza di definizioni incontrovertibili, nella pratica politica e militare della NDH l'affermazione di Mile Budak per cui un terzo dei serbi sarebbe stato espulso, un terzo convertito e un terzo sterminato avrebbe trovato una traduzione operativa senz'altro fedele. Malavolti descrive il processo di "pulizia" portato avanti con la collaborazione tedesca dalla Ponova -la "Direzione statale per il rinnovamento economico" di Pavelić- con il ricorso alle deportazioni, a un sistema concentrazionario e ad episodi di sterminio più o meno deliberati dall'alto. Rifacendosi a Enzo Collotti, Malavolti definisce il movimento ustascia come un'organizzazione "a metà tra la setta terroristica e un movimento di ispirazione vagamente fascista", caratterizzato in questo senso dal disprezzo per il sistema democratico, dall'anticomunismo e dall'adozione del culto della personalità. Dopo il 1941 la forte ispirazione nazionalsocialista avrebbe consentito di aggiungere al tradizionale e unico obiettivo della creazione di uno stato croato omogeneo l'organizzazione di una macchina "di violenza cieca e indiscriminata" contro serbi, ebrei e rom.
Il terzo saggio di Massimiliano Ferrara affronta l'argomento della presenza ustascia nella penisola italiana, "tra terrorismo e confino". Il sostegno economico e logistico di una Roma fascista decisa a espandere la propria influenza nei Balcani avrebbe permesso agli ustascia di considerare realizzabile il proprio intento di distruggere l'autorità regale serba. La presenza degli ustascia nella penisola italiana viene fatta risalire dall'A. almeno al giugno 1929 e agli accordi stretti a Bologna tra Ante Pavelić, il separatista macedone Mihailov e altri esponenti separatisti del Crna Gora e dell'Albania. I primi gruppi armati avrebbero iniziato l'addestramento nella penisola italiana nel 1931; dalla stessa penisola sarebbero partite le formazioni responsabili di attentati che avrebbero destabilizzato tutto il sistema delle relazioni internazionali. Il saggio presenta lo sviluppo dei campi di addestramento ustascia nella penisola italiana (Bovegno, poi Borgo val di Taro, Bardi, Civitella e infine in varie località dell'Appennino aquilano) e accenna a figure, figuri ed aneddotica circa gli uomini di cui Pavelić avrebbe potuto disporre negli anni successivi. I quattrocentocinquanta "agricoltori albanesi" o "operai specializzati nei lavori di rimboschimento" sarebbero costati al governo di Roma circa duecentomila lire ogni mese, esclusi i deficit "che i Capi (ed i gregari) accumulano con la massima facilità". Ferrara scrive che dopo l'attentato di Marsiglia vari gruppi di ustascia sarebbero entrati nella penisola italiana da altri paesi europei; circa seicento persone in totale sarebbero state trasferite nelle isole Eolie dopo la chiusura dei campi di addestramento, finché nel 1937 un accordo tra Ciano e Stojadinović avrebbe trasformato gli ormai ingombranti ospiti in sorvegliati a tutti gli effetti. L'A. accenna alle vicende che avrebbero portato al rimpatrio di alcune decine di attivisti e alla suddivisione dei restanti in varie province del sud della penisola italiana; Pavelić sarebbe riuscito a tessere rapporti con tutti i militanti rimasti, facendone un gruppo che sarebbe stato in grado di influenzare la politica fascista nei Balcani fino a portare alla nascita della NDH.
Il curatore della raccolta Eric Gobetti è autore del quarto saggio, Un duce croato a Siena, centrato sulla figura di Ante Pavelić e sugli anni della sua permanenza nella penisola italiana. Gobetti ricorda le mire espansionistiche del fascismo come principale motivo del mantenimento di contatti con "terroristi macedoni, separatisti kosovari, legittimisti montenegrini e nazionalisti croati" che avrebbero trovato tutti "appoggio economico e materiale" nella penisola italiana. In questo contesto Pavelić viene ritratto come il leader di una corrente estrema del nazionalismo croato, disposta anche a rinunciare alla Dalmacija pur di costituire uno stato indipendente che includesse anche tutta la Bosna i Hercegovina. Il mutato atteggiamento del governo di Roma dopo l'attentato di Marsiglia, scrive l'A., si sarebbe tradotto per Pavelić in una detenzione più che confortevole fino alla scarcerazione nel giugno 1936. Gobetti accenna all'attiva complicità della Fiat, che avrebbe ospitato il leader degli ustascia in una propria casa di riposo a Moncalieri, e al successivo trsferimento a Siena imposto dalle autorità. Gobetti descrive il regime di sorveglianza cui la famiglia di Pavelić sarebbe stata sottoposta a Siena, soprattutto dopo l'accordo con le autorità jugoslave del 1937, e come nonostante esso e nonostante l'apparente conformarsi alle disposizioni impostegli Pavelić sarebbe riuscito comunque a mantenere i contatti con la rete degli ustascia in Europa. In un pamphlet anticomunista scritto a Siena e pubblicato nel 1938 sotto lo pseudonimo di A.S. Mrzlelski, Pavelić si sarebbe raffigurato come l'alfiere di una via croata al fascismo. La seconda guerra mondiale, scrive Gobetti, avrebbe concesso al futuro Poglavnik l'opportunità di riprendere apertamente i contatti con la propria rete e con i propri referenti a Roma, primo fra tutti Galeazzo Ciano. Dal febbraio 1940 Pavelić da Firenze avrebbe creato un centro di comando con i propri fedelissimi. Solo che sarebbero stati i tedeschi a occupare Zagreb e a dichiarare l'indipendenza croata; Pavelić sarebbe arrivato in città solo dopo una settimana "con la sua banda di disperati esuli da dieci anni". Gobetti insiste in particolare sull'orientamento filotedesco della NDH, e sulla posizione di forza che avrebbe consentito agli ustascia di condurre la pulizia etnica programmata per due decenni.
Martina Bitunjac indaga la figura di Marija Pavelić e il ruolo delle donne nel movimento ustascia. Fno al 1941 Pavelić avrebbe promosso l'attività delle donne che nel movimento ustascia erano state mediatrici, corrieri, informatrici, spie e combattenti irregolari. Lo scritto della Bitunjac traccia una biografia della moglie di Ante Pavelić, nata da un aderente al ČSP e impiegata come segretaria personale del presidente del Partito, indicandola come il tramite dei messaggi con cui Pavelić sarebbe riuscito a tenere i contatti con la propria rete anche durante la detenzione. Nel corso degli anni successivi alla fondazione della NDH Marija Pavelić sarebbe diventata una sorta di "co-regnante invisbile" che secondo alcune fonti avrebbe solo finto di adeguarsi a un ruolo femminile stereotipato. Come Poglavnikovica informale, Marija Pavelić avrebbe influito in modo determinante nella nomina o nelle dimisioni di funzionari e ministri, mentre la sezione femminile del movimento le avrebbe messo a disposizione una rete di spie e di delatrici. La figlia Višnja avrebbe essa stessa rivestito un ruolo non meramente rappresentativo, adoperandosi poi per tutta la vita per riabilitare l'immagine del padre. La Bitunjac descrive le organzzazioni femminili del movimento, notando che la fondazione della NDH avrebbe vistosamente trasformato la propaganda conferendole un inedito orientamento patriarcale, anche se in concreto il funzionamento e spesso la difesa della NDH sarebbero finite col dipendere dalle donne.
Raffaello Pannacci affronta il tema dei nazaionalisti ucraini e dei loro rapporti con gli ustascia nella penisola italiana durante gli anni '30. Il saggio tratta del fenomeno del nazionalismo ucraino esule in Europa e della sua presenza in contesti, come quello fascista, di cui esso avrebbe apprezzato il ruralismo e la concezione totalitaria. Le autorità fasciste avrebbero sempre considerato con sospetto i nazionalisti ucraini a causa del conflitto con la Polonia, della natura non omogenea del loro movimento, della loro ostilità a una Unione Sovietica con cui i rapporti non sarebbero stati troncati prima del 1940 e in ultimo dei loro legami con la Germania nazionalsocialista. La presenza dei nazionalisti ucraini nella penisola italiana rappresenterebbe un tema poco noto anche in ambito accademico, stante la documentazione scarsa e incompleta per lo più costituita da informative e carteggi della Pubblica Sicurezza, dai quali si desumono le identità di soli otto individui all'epoca poco più che ventenni, aggregati agli ustascia e trattati dal 1934 in poi come "confinati speciali". Secondo l'A. l'intenzione di Pavelić sarebbe stata quella di servirsi degli ucraini come agitatori, ma i fatti del 1934 e il successivo coinvolgimento dei campi di addestramento ustascia anche nell'attentato contro il ministro dell'interno polacco avrebbero indotto le autorità fasciste a separare gli ucraini dagli ustascia, a fornire loro una falsa identità doppia (con luoghi di nascita sudtirolesi) e a confinarli a Tortorici. Nel 1937, anche per pressioni del principale esponente del nazionalismo ucraino nella penisola italiana Euhen Onatsky, il piccolo gruppo sarebbe stato disperso e per lo più fatto espatriare alla spicciolata; Pannacci descrive la grama vita al confino come risulta dai carteggi disponibili. Dalla documentazione disponibile Pannacci ricorda due scritti significativi diretti a Ercole Conti, all'epoca ispettore generale di Pubblica Sicurezza e "vera e propria balia degli ustascia". Uno espone i rapporti dei nazionalisti ucraini con altre correnti nazionaliste europee costrette alla clandestinità, l'altro è una relazione sulla natura e sugli obiettivi del nazionalismo ucraino che è in buona parte una rilettura politica della storia ucraina ed europea. L'"anima ucraina" vi verrebbe definita come "nettamente ariana, di popolo agricoltore, senza riflessi ed echi mongolici, senza ricordi e nostalgie asiatiche". Pannacci nota come rilevante nel piccolo gruppo la figura di Aleksandr Bandera, fratello minore di Stepan e laureatosi in scienze politiche durante una permanenza nella penisola italiana durata almeno otto anni. Il saggio si chiude descrivendone il destino. Recatosi a Berlino per perorare la causa ucraina, dopo l'inizio dell'Operazione Barbarossa sarebbe stato arrestato e deportato. In uno dei campi del complesso di Auschwitz sarebbe stato ucciso da nazionalisti polacchi.


Eric Gobetti (a cura di) - L'Italia e gli ustascia (1929-1945). Pacini Editore, Pisa 2024. 64pp.