Il titolo originale del libro di David Graeber -uscito negli USA nel 2007 e pubblicato da Elèuthera nel 2012 e poi nel 2019 in una tradizione di Alberto Prunetti, è "There never was a West, or, Democracy emerges from the spaces in between". Non c'è mai stato un Occidente. Ovvero, la democrazia emerge dagli spazi intermedi. La prefazione di Stefano Boni -tanto lunga da costituire una sorta di saggio aggiuntivo- nota le incrinature che negli ultimi anni avrebbero colpito un ordine costituito caratterizzato per decenni dall'apatia, dal consumismo e dalla credenza diffusa nella superiorità di un Occidente modernizzato, detentore e propagatore di giustizia e verità e legittimato per questo a tutto e al contrario di tutto. L'Occidente ritratto da Boni mescola "politici e faccendieri, da proprietari di mass media e facce televisive compiacenti, gestori delle risorse finanziarie e grandi imprenditori" dalle proposte sempre meno allettanti, una uguaglianza e dei diritti universali cui si contrappone nella realtà un depotenziamento generale dell'agire politico, la criminalizzazione e la persecuzione condotta "con successo e crescente minuzia" di ogni forma di azione diretta. La "libertà occidentale" tollererebbe solo azioni dal peso politico ridotto e soprattutto ininfluenti, e la sua concretezza sarebbe invece identificabile "nella sclerotizzazione della classe politica [...]; negli organi direttivi dei diversi partiti, che mantengono la propria posizione di dominio da decenni; nell'omogeneità delle posizioni parlamentari con governi diversi che attuano le stesse politiche; nella distanza tra marketing politico e vita vissuta; nella preoccupazione primaria di spartirsi i soldi degli appalti, le poltrone, le leggi a propria tutela; nell’occupazione monopolistica dello spazio mediatico da parte dei politici o dei loro portavoce; nella sottomissione dei politici alle volontà dei grandi gruppi finanziari ed economici che richiedono la progressiva mercificazione dell’ambiente, la privatizzazione dei servizi, la chiusura di ciò che è pubblico, autogestito, gratuito, di tutto ciò che non è riducibile al loro controllo". La stragrande maggioranza dei cittadini ne uscirebbe privata non solo della possibilità di influire sullo stato di cose presente, ma anche della capacità di espressione pubblica e dello stesso immaginario di una società più umana. Che l'ordine costituito viga senza incrinature e grazie a una dose relativamente ridotta di violenza sarebbe dovuto essenzialmente alla disponibilità di mezzi di controllo dal buon funzionamento. Graeber restituirebbe al vocabolo democrazia il suo significato di potere del popolo, inteso come forza anche violenta, e come configurazione diffusa del potere; in aperta opposizione alla delega in cui l'esercizio democratico si concretizzerebbe e si estinguerebbe con il voto. Voto che non comporterebbe alcuna seria influenza sull'oligarchia non dichiarata che muove i fili di un armamentario tecnico formidabile, sorretta dalla compiacenza dei tecnici e dall'apatia diffusa. Rifacendosi alla documentazione archeologica, storica ed etnografica Boni indica i circuiti culturali più democratici in quelli tipici delle società preagricole, in cui i capi sarebbero apparsi come figure dedite alla mediazione, all'oratoria e al coordinamento in un contesto caratterizzato da un netto egualitarismo. Un assetto di cui Stefano Boni indica i limiti, primo tra tutti le tensioni verso le disuguaglianze e l'esclusione o la marginalizzazione di questo o di quel gruppo. Il "progresso della civiltà" sarebbe quindi caratterizzato dalla progressiva istituzionalizzazione del potere politico e da una visione ontologica dell'umanità fondata sulla disuguaglianza. I circuiti democratici egualitari, caratterizzati da istituzioni politiche orizzontali e polifoniche, sarebbero sopravvissuti all'interno ma soprattutto ai margini del potere costituito, in quegli àmbiti dell'attività umana verso cui gli stati o gli imperi proverebbero scarso interesse. Secondo Boni negli ultimi decenni la democrazia rappresentativa sarebbe diventata l'unica espressione politica legittima, che avrebbe estinto le forme orizzontali di potere comunitario. Il "progresso", scrive Boni, avrebbe contribuito alla soppressione di molte dinamiche culturali tendenti all'egualitarismo, dai rapporti di vicinato ai lavori comunitari. E con la scomparsa delle forme concrete di gestione assembleare sarebbero scomparsi anche il loro immaginario, la loro legittimazione e le competenze pratiche necessarie a farle funzionare. Secondo Boni esisterebbe una minoritaria ma costante corrente consapevole dei limiti della democrazia rappresentativa, a tratti suscettibile di estendersi al di là dei settori usuali dello scontento cronico. Per assecondarla occorrerebbe un consolidamento degli "spazi intermedi", delle zone marginali e dei processi di democrazia diretta, da compiersi con "gesti minuti e ordinari" fuori dal monopolio della legalità e del mercato, lontani o anche ostili alla visibilità mediatica comunemente intesa.
Nella Introduzione al suo saggio, Graeber afferma che il suo lavoro è frutto della sua esperienza nel movimento contrario alla globalizzazione (o per meglio dire, favorevole a una globalizzazione alternativa) e del suo dibattito sul tema della democrazia. L'A. avrebbe riscontrato ovunque, al di lù delle questioni teoriche, una buona convergenza sull'importanza di costruire strutture decisionali orizzontali e sulla necessità di dar vita a iniziative che procedano dal basso e da piccoli gruppi autonomi e auto organizzati, in cui siano favoriti i meccanismi che consentano di far emergere le istanze solitamente escluse dai processi di partecipazione tradizionali. Graeber nota che dal significato originario che si riferiva a un sistema in cui i cittadini di una comunità prendevano decisioni attraverso un voto di pari peso in un’assemblea comune il vocabolo democrazia sarebbe passato solo recentemente -dopo millenni di oblio se non di esecrazione- a identificarne uno in cui i cittadini di uno Stato eleggono i loro rappresentanti affinché esercitino il potere in loro nome. Nel saggio, Graeber intende affrontare cinque interrogativi sull'origine "occidentale" della democrazia e la sua rivitalizzazione dal XVIII secolo in poi, sulla specificità culturale o meno dei processi decisionali egualitari, sulla fondatezza delle "rifondazioni democratiche" con cui intellettuali e politici sarebbero andati nel corso dei secoli a recuperare ideali e tradizioni, sulla legittimità e l'autenticità della democrazia a prescindere dal suo fondarsi su tradizioni inventate e -in ultimo- sulla crisi contemporanea e sul suo riguardare più lo Stato che la democrazia.
L'incoerenza del concetto di "tradizione occidentale" si apre con la confutazione del concetto divulgato da Samuel P. Huntington per cui la democrazia sarebbe un'idea tipicamente occidentale insuscettibile di esportazione. Huntington considera caratterizzanti la "cultura occidentale" i concetti di individualismo, liberalismo, costituzionalismo, diritti umani, eguaglianza, libertà, principio di legalità, democrazia, libero mercato e separazione tra Stato e Chiesa; Graeber muove a Huntington una serie di obiezioni, a cominciare dal fatto che la "cultura occidentale" potrebbe essere definita in tutt'altro modo (per esempio quelli di scienza, industrializzazione, razionalità burocratica, nazionalismo, teorie razziali, espansionismo) e che prima del XIX o anche del XX secolo gran parte degli "occidentali" non sarebbe stata nemmeno in grado di concepire i concetti indicati da Huntington. Secondo Graeber Huntington avrebbe puntato a contrapporre un "Occidente" definito geograficamente -e di cui soprattutto il pluralismo sarebbe una sorta di esclusiva- a un resto del mondo definito come ripartito in monoliti religiosi in modo da escluderne il pluralismo per definizione. L'"Occidente" inoltre vi sarebbe definito attraverso i suoi concetti più rilevanti e preziosi e in una maniera tale da consentire a Graeber di definire le tesi di Huntington come "la Teoria delle Civiltà dei Grandi Libri". Secondo Graeber proprio la rozzezza delle argomentazioni di Huntington consentirebbe di mettere in discussione l'idea che esista un'entità definibile come "Occidente", e in grado di comprendere al tempo stesso una tradizione letteraria che si è originata nella Grecia classica e la cultura di senso comune dei popoli che oggi vivono nell’Europa occidentale e nel nord del continente americano. Secondo Graeber la nozione stessa di "Occidente" sarebbe radicata in un confine indistinto fra tradizioni testuali e forme di pratica quotidiana, e nella sua raffigurazione sarebbe di comune diffusione la propensione a contrapporre un "Occidente" compendiato in una concezione assolutamente idealizzata e basata su testi filosofici e scientifici ad altre realtà costruite invece ricorrendo a un'aneddotica di rituali sconcertanti, circostanze inusuali e reazioni sorprendenti. Ogni "occidentale" si comporterebbe da "osservatore razionale, indistinto, disincarnato e attentamente ripulito da ogni contenuto sociale o individuale", cosa che renderebbe problematico considerarlo un vettore di democrazia intesa come autogoverno comunitario, dal momento che l'individuo "occidentale" avrebbe sciolto ogni legame con la comunità. A riprova dell'origine tutta recente dell'autoconferito "primato occidentale", Graeber propone a titolo di esempio una prospettiva centrata sul Levante, di cui l'Europa occidentale sarebbe stata per gran parte del medio evo una periferia economica e culturale, dato che l'Islam del tempo avrebbe presentato molte somiglianze proprio con la pretesa "tradizione occidentale", dal tentativo intellettuale di fondere le scritture giudeo-cristiane con le categorie della filosofia greca all'enfasi letteraria sull'amore cortese, dal razionalismo scientifico alla legalità, dal monoteismo puritano alla spinta missionaria fino all’espansione del capitalismo mercantile. Una simile prospettiva consentirebbe di confutare una rappresentazione in cui esistono "civiltà" sviluppatesi in base a processi del tutto interni.
La democrazia non è stata inventata, precisa il secondo capitolo. Molte comunità nella storia umana sarebbero state per Graeber più ugualitarie del modello ateniese del V secolo, e tutte avrebbero avuto procedure specifiche per prendere decisioni su materie rilevanti per la collettività; la diffusa convinzione che queste procedure non rientrassero appieno nella definizione corrente di democrazia sarebbe dovuta al loro scarso ricorso al voto e alla propensione per le decisioni unanimi. In assenza di uno Stato col monopolio della forza, o laddove esso Stato non avrebbe interesse a intromettersi, si verrebbero a creare situazioni in cui non esisterebbe modo di obbligare la minoranza ad adeguarsi. In casi del genere arrivare al consenso sarebbe più costruttivo che non sfidare una eventuale minoranza a perdere pubblicamente. Graeber sottolinea come i processi consensuali non abbiano nulla a che vedere coi dibattiti parlamentari e come la ricerca del consenso non somigli in nulla al voto; i processi di compromesso e di sintesi punterebbero a produrre decisioni che nessuno troverebbe tanto inaccettabili da doverle rifiutare. L'idea di una sistematica imposizione coercitiva della volontà della maggioranza sarebbe in casi simili inconcepibile. L'A. cita la Politica di Aristotele e la Anabasi di Senofonte per notare che nel modello greco i processi decisionali avrebbero dovuto molto alla presenza delle armi. Nel recupero del modello -da Mchiavelli in poi- il concetto della plebe in armi sarebbe stato sempre centrale, confermando l'origine denigratoria di un vocabolo etimologicamente legato alla forza impositiva del Κράτος dalla élite che con i suoi intenti repressivi avrebbe davvero fatto in modo che in ogni epoca l'unica possibilità di espressione per la volontà popolare diventasse davvero l'insurrezione. Secondo Graeber il vocabolo democrazia si sarebbe trovato riabilitato agli occhi dei pensatori politici solo quando ebbe incorporato il principio della rappresentanza.
Il terzo capitolo sull'emergere dell'ideale democratico nota come in molti casi i fondatori dei sistemi elettorali fossero apertamente antidemocratici. Imbevuti di quella tradizione classica di cui si sarebbero considerati gli eredi diretti, statunitensi e francesi si sarebbero richiamati alla repubblica romana assai più che a una democrazia ateniese conosciuta per lo più tramite le traduzioni di Tucidide effettuate da Thomas Hobbes e vista come instabile e suscettibile di degenerare nel dispotismo. Nella costituzione statunitense l'ideale della repubblica romana -considerata in grado di bilanciare al meglio i poteri di tutte le forze sociali- sarebbe stato consapevolmente riprodotto al meglio. Alla fine del XVIII secolo i democratici statunitensi che si definivano tali -scrive Graeber citando John Markoff- sarebbero stati considerati una minoranza di sobillatori piuttosto ostili alle forme parlamentari, ai partiti politici e allo scrutinio segreto. Nel contesto statunitense il termine "democrazia" avrebbe rapidamente perso le connotazioni negative solo nei primi decenni del XIX secolo, quando l'allargarsi della gamma dei diritti avrebbe costretto i politici a inseguire il voto di piccoli agricoltori e lavoratori urbani. Il termine "repubblica" sarebbe stato sostituito con quello di "democrazia" senza modifiche al senso o ai contenuti, e i rimandi alla Grecia classica sarebbero stati alimentati dalla fascinazione per gli eventi della contemporanea guerra di indipendenza greca (1821-1829). Le ostilità sarebbero state considerate una replica moderna dello scontro narrato da Erodoto in una sorta di testo fondativo che contrapponeva l’Europa amante della libertà all’Oriente dispotico. Lo scambio semantico operato da élites interessate, sostiene Graeber, fa pensare che l'ideale democratico non sarebbe emerso dalla tradizione letteraria e filosofica occidentale, ma si sarebbe imposto ad essa. Il concetto di "civiltà occidentale" sarebbe stato sviluppato verso il 1920 appena in tempo per tornare utile in un'epoca di graduale dissoluzione degli imperi coloniali. La "civiltà occidentale" avrebbe messo insieme madrepatria e colonie ricche, avrebbe permesso di rivendicare una comune superiorità morale.
Nel quarto capitolo sul processo di recupero democratico l'A. nota che la democrazia sarebbe emersa in un contesto di capitalismo già avanzato e che i poteri europei avrebbero iniziato a ritenersi "democratici" negli stessi anni in cui avrebbero cominciato a perseguire una politica di deliberato sostegno ad élites reazionarie in grado di contrastare chiunque proponesse riforme anche vagamente democratiche nei territori coloniali. A sostegno di queste politiche essi avrebbero fatto ricorso a teorie orientaliste fondate sulla tesi che in Asia un assetto autoritario fosse inevitabile e che i movimenti democratici fossero inesistenti o innaturali. Graeber cita un saggio di Giovanni Arrighi, Iftikhar Ahmad e Min-wen Shih in cui la pretesa di Huntington per cui la civiltà occidentale sarebbe la legittima erede di liberalismo, costituzionalismo, diritti umani, equità, libertà, democrazia, libero mercato e legalità suonerebbe falsa a chiunque conosca la storia del colonialismo durante l'epoca degli stati-nazione, nel corso della quale questi ideali sarebbero stati sistematicamente traditi dagli "occidentali" e altrettanto sistematicamente sostenuti dai movimenti di liberazione. Graeber cita fonti islamiche del XVI secolo come Zayn Al-Din Al-Malibari, propense a giustificare la guerra contro gli occidentali perché colpevoli di attentare a una società tollerante e pluralista. I valori che Huntington considererebbe prerogativa dell'"Occidente", secondo Graeber non potrebbero essere collocati in una particolare tradizione, nonostante i loro difensori siano di volta in volta propensi a farlo, perché sorgerebbero in realtà dall'interazione fra tradizioni diverse.
O meglio, nei loro spazi intermedi.
Graeber rileva che chi tratta di storia delle istituzioni difficilmente sfugge a riferimenti al mondo classico, mentre sarebbe possibile raccogliere prove convincenti a favore dell'influenza di elementi non classici sul costituzionalismo statunitense quanti ne basterebbero a confutarne la purezza. Secondo i sostenitori della "influenza culturale" i valori di ugualitarismo e di libertà personale sarebbero arrivati ai ribelli delle tredici colonie anche dai nativi della costa orientale e dalle istituzioni federali irochesi, non foss'altro che per il fatto che quello indiano sarebbe stato l'unico esempio di sistema federale di cui i coloni potessero avere esperienza diretta. Graeber nota anche che coloro che scrissero la costituzione statunitense avrebbero avuto anche esperienza concreta di gruppi di uguali di tipo democratico la cui influenza non è dimostrabile ma neppure escludibile a priori. La società di frontiera del tardo XVIII secolo inoltre sarebbe stata di per sé uno "spazio di improvvisazione interculturale in gran parte fuori dal controllo degli Stati", in cui la società dei nativi e quelle dei coloni sarebbero state in buona parte integrate tra loro. Prova ne sarebbe il fastidio con cui i vertici politici e militari coloniali avrebbero considerato uno stato di cose in cui i loro sottoposti avrebbero potuto assumere la forma mentis indiana improntata a un'uguaglianza e a una libertà individuale bollate come "stolta indulgenza".
Graeber sottolinea come i contesti in cui si sarebbero sviluppati i valori democratici tenderebbero ad avere poca o nessuna eco nelle tradizioni filosofiche e letterarie considerate pilastri delle grandi civiltà. Uno stato di cose che solo la pressione dei nuovi movimenti sociali dopo la fine del XVIII secolo avrebbe in parte modificato, tramite influenze culturali di ogni parte del mondo che sarebbero andate concentrandosi e fondendosi nelle grandi capitali. Sviluppatesi per loro natura negli spazi intermedi e poco documentati, questi fenomeni si presterebbero poco a essere indagati dagli storici. Nonostante questo, Graeber ritiene che non si possa considerare solo una coinicidenza il fatto che gli ideali democratici di governabilità abbiano finito per trovare codificazione in un periodo in cui i poteri atlantici erano al centro di vasti imperi globali in cui confluivano conoscenze ed influenze. L'A. nota anche come il modello ateniese, in cui le decisioni importanti vengono prese nel corso di assemblee comunitarie da maschi adulti in grado di portare le armi, conterebbe su molti esempi analoghi al di fuori dalla Grecia classica. Secondo Graeber né l'invenzione della democrazia né il suo processo di recupero e di rifondazione democratica sarebbero esclusive "occidentali". L'A. sottolinea comunque la propensione ancora forte negli studiosi a cercare per la democrazia origini culturali precise e definite, con risultati non sempre inattaccabili soprattutto perché le origini della democrazia verrebbero cercate proprio laddove sarebbe meno probabile trovarle, ovvero nella formazione di quegli organismi che avrebbero in gran parte combattuto e soppresso le forme locali di autogoverno e di processo decisionale collettivo.
In ultimo, in la crisi dello Stato, Graeber ricorda che lo scopo principale del saggio era sottolineare come le forme della democrazia non siano mai state né un fenomeno eccezionale né un'esclusiva "occidentale", e tratta della nascita, della diffusione e dell'influenza dell'esperienza zapatista nei primi anni del ventunesimo secolo. Graeber cita uno scritto di Walter Mignolo in cui si sostiene che gli zapatisti non avrebbero concettualizzato la democrazia partendo dalla filosofia politica europea ma dal modello di organizzazione sociale Maya caratterizzato dalla reciprocità e dai valori comunitari; il vocabolo democrazia sarebbe stato usato perché imposto dal discorso politico egemonico, tanto che altri movimenti analoghi ne avrebbero evitato l'utilizzo perché sulla base della loro esperienza storica il termine democrazia avrebbe evocato sistemi imposti con la violenza. In parziale contestazione a questa tesi l'A. nota che le origini dello zapatismo andrebbero cercare in un prolungato confronto tra pratiche locali ed esperienze anche molto distanti nel tempo e nello spazio. Sottolineando ancora il duplice significato di una parola coniata dapprima per descrivere una forma di autogoverno municipale e poi applicata alle repubbliche rappresentative, Graeber nota come nella letteratura politica sia ancora inammissibile dichiarare irrilevante la democrazia ateniese con tutti i suoi limiti e che senza Atene diventerebbe difficile avocare alla "tradizione occidentale" -ammesso che a quel punto ne esistesse una- una ascendenza democratica. Graeber sostiene che dal XVIII secolo i democratici avrebbero cercato di innestare gli ideali dell'autogoverno popolare sull'apparato coercitivo dello Stato, imbattendosi nel limite dato dalla natura stessa dello Stato come forma di violenza organizzata, data la sua aspirazione al monopolio della violenza. Solo quando sarebbe diventato chiaro che il discorso pubblico e l'assemblea non sarebbero comunque stati il fulcro della decisione politica ma al massimo una sede di critica e di influenza si sarebbero introdotte nella legislazione delle garanzie a loro tutela. L'A. ricorda anche come qualsiasi ordine legale che avochi a sé il monopolio della violenza fondi le sue pretese su atti che erano considerati illegali nel sistema giuridico precedentemente in vigore; concordando con Walter Benjamin Graeber nota come la legittimità di un sistem giuridico finisca per poggiare necessariamente su atti violenti di natura criminale, dal momento che una rivoluzione trionfante si configura come alto tradimento nel sistema giuridico in cui si è sviluppata. Nel XXI secolo, conclude l'A., la "pressante richiesta di creare un apparato coercitivo da estendere in modo uniforme su tutto il pianeta, e la simultanea pretesa che la legittimità di questo apparato derivi sempre dal «popolo», spingono con urgenza a domandarsi chi sia questo «popolo»" che viene evocato come l'autorità che sta dietro il ricorso alla violenza, nonostante il fatto che l'idea stessa di democratizzare i procedimenti giudiziari sia guardata con contrarietà da tutti i soggetti implicati. La globalizzazione e la sua spinta a creare strutture decisionali che renderebbero grottesco ogni riferimento alla sovranità popolare o addirittura alla partecipazione non avrebbero fatto altro che mettere ancor più in evidenza la nota contraddizione tra democrazia e Stato, acuita ancora di più da un neoliberismo che ridurrebbe lo Stato alle sue mere funzioni coercitive. Graeber sostiene che in questa situazione la proposta zapatista basata sulla rifondazione della democrazia e sull'auto organizzazione di comunità autonome, in cui una rivoluzione non comporti l'impossessarsi di un apparato coercitivo, segnerebbe il ritorno della democrazia agli spazi intermedi e agli interstizi del potere in cui sarebbe nata.
David Graeber - Critica della democrazia occidentale. Crisi dello Stato, nuovi movimenti, democrazia diretta. Elèuthera, Milano 2020. 128 pp.
David Graeber - Critica della democrazia occidentale. Crisi dello Stato, nuovi movimenti, democrazia diretta
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