Il suicidio di Israele è uno instant book uscito alla fine di ottobre 2024 e contenente le riflessioni di una ebrea della diaspora sugli avvenimenti successivi all'attacco di Hamas del 7 ottobre 2023.
Secondo la Foa l'attacco avrebbe scosso la percezione di invincibilità dello stato sionista in un momento in cui l'attenzione del pubblico era rivolta al confronto con una riforma giudiziaria che avrebbe tolto potere alla Corte Suprema per darne all'esecutivo. Il Primo Ministro Netanyahu avrbbe considerato la contestazione come un tradimento, anche se la maggior parte dei manifestanti si sarebbe limitata a contrastare la riforma giudiziaria omettendo qualsiasi consegna sull'elefante nella stanza, l'occupazione di Gaza e della Cisgiordania. Nel 2023 questo contrastato processo di riforma del sistema giudiziario si sarebbe accompagnato -in un esecutivo formatosi a fatica e solo grazie all'immisione diretta di partiti oltranzisti e legati ai coloni- da una politica di crescente legalizzazione degli insediamenti in Cisgiordania. La prospettiva di un'annessione a tutti gli effetti della Giudea e della Samaria bibliche sarebbe stata parte dei motivi per cui il 7 ottobre 2023 il confine di Gaza sarebbe stato lasciato sguarnito. Anna Foa sostiene che quali che fossero le intenzioni di Hamas, l'obiettivo di suscitare da parte dello stato sionista una reazione tanto prevedibile quanto sanguinosa sarebbe stato l'unico pienamente raggiunto; Hamas e lo stato sionista -entrambi alle prese con la censura della Corte internazionale di giustizia- concorderebbero almeno nel rendere impossibile una soluzione del conflitto basata su due Stati. L'A. scrive che le iniziative dell'esecutivo -presto in gravi difficoltà davanti all'opinione pubblica mondiale- avrebbero fatto crescere il consenso per Hamas, che la vera posta in gioco sarebbe il destino della Cisgiordania e che la conoscenza del movimento sionista e delle sue conseguenze per il mondo ebraico e per la Palestina è una base irrinunciabile per sottrarsi alle dicotomie care agli estremismi.
Il primo capitolo del libro presenta una storia del sionismo, un vocabolo che l'A. riterrebbe appropriato utilizzare al plurale per comprendere la molteplicità dei suoi aspetti. La Foa scrive che il sionismo sarebbe sorto come movimento di rinascita nazionale, che "considera gli ebrei un popolo e che ne sostiene il diritto al ritorno nella loro terra originaria, la Palestina". Nel rapporto con la modernità, l'ideologia sionista sarebbe la più radicale tra quelle abbracciate dagli ebrei in quanto comporterebbe una netta cesura col passato e una ridefinizione dell'identità del mondo ebraico in netta opposizione con i duemila anni in cui la costruzione teorica e filosofica del mondo ebraico non avrebbero mai compreso un progetto politico statale. Il sionismo svaluterebbe complessivamente i due millenni della diaspora, derubricati a un galut -esilio- da rifiutare come tale, e in generale l'integrazione degli ebrei diasporici nei rispettivi corpi sociali. Nel suo immaginario i sabra dal fisico prestante grazie al lavoro nei campi avrebbero sostituito i piccoli e curvi studenti delle yeshivot diasporiche; il rifiuto della diaspora avrebbe creato "una barriera altissima" fra questa e il sionismo e solo la aliyah avrebbe agli occhi dei sionisti conferito legittimità a un ebreo. Nonostante in anni recenti molti residenti nello stato sionista abbiano seriamente pensato di lasciare il paese, la yeridah -uscita- sarebbe ancora oggetto di diffusa disapprovazione. La Foa rileva il fatto che pur essendo nato in Europa occidentale il sionismo sarebbe figlio, come il Bund o lo stesso bolscevismo, della società non emancipata della Russia zarista. Al poco consenso sulla sua precisa nata di nascita -almeno tre quelle proposte- la Foa accosta anche l'incertezza sulla sua concretizzazione territorale dla momento che i primi sionisti avrebbero avuto lo scopo essenziale di salvare gli ebrei dall'antisemitismo. Leo pinsker avrebbe proposto l'Argentina, Herzl nel 1903 avrebbe seriamente pensato all'Uganda. Sarebbe stato essenzialmente per i motivi di rinnovamento culturale e spirituale ricorrenti negli stessi ambienti russi spesso a rischio che la scelta definitiva sarebbe caduta sulla Palestina. Una Palestina non certo disabitata -ricorda con dati e cifre l'autrice- in cui però dalla seconda metà del XIX secolo Gerusalemme avrebbe accentuato il proprio carattere ebraico; alcuni autori sionisti come il citato Achad Ha'am sarebbero stati già all'inizio del XX secolo ben coscienti di come la convivenza con gli arabi avesse buone probabilità di rivelarsi prima o poi piuttosto complicata. L'autrice scrive che fino alla dichiarazione Balfour del 1917 l'identità palestinese in corso di costruzione e di rafforzamento non si sarebbe rivolta contro l'emigrazione sionista e i rapporti fra arabi ed ebrei sarebbero stati sostanzialmente buoni. La colonizzazione ebraica avrebbe anzi portato benefici anche all'economia e alla produzione agricola araba, contrariamente a quello che sarebbe successo nel 1948. Secondo Anna Foa la rottura tra i sionisti e il mondo arabo si sarebbe verificata dopo la conferenza di pace di Parigi, quando la Siria -promessa dai britannici al re hashemita Faysal- sarebbe invece finita sotto controllo francese. Il nazionalismo arabo avrebbe così concentrato la propria attenzione sulla Palestina, in cui il montante antisionismo era alimentato dalle nuove aliyot, foriere di una modernizzazione di cui avrebbero fatto le spese gli strati più poveri della popolazione araba. La Foa ricorda il movimento Brit shalom di Martin Buber, Yehuda Magnes e Gershom Sholem, che avrebbe auspicato uno Stato binazionale con parità di diritti, e i marxisti del Mapam orientati allo stesso modo; sulle stesse posizioni sarebbe rimasto fino alla rivolta del 1936 tutto il movimento sionista. Descrive poi il sionismo revisionista di Vladimir Zeev Jabotinsky, propenso invece a imporsi con la forza, cui si sarebbero unite le formazioni armate del Betar di Menachem Begin. Begin sarebbe poi diventato capo del movimento combattente irregolare dello Irgun -autore dell'attentato allo hotel King David nel 1946- e poi fondatore del Likud, partito ispiratore della destra di governo e oggi caratterizzato in senso ultrareligioso. L'autrice considera la rivolta nazionale palestinese del 1936 organizzata da Amin al Husayni -guida dei credenti in Palestina per volere britannico dal 1921- come la fine di ogni ipotesi di accordo. L'avvento del nazionalsocialismo avrebbe trasformato anche la natura dello yishuv, dell'insediamento ebraico, che da luogo in cui creare un nuovo modo di essere ebrei sarebbe rapidamente diventato il luogo in cui accogliere tutti gli ebrei della diaspora. Sarebbe stato Jabotinsky a sostenere la necessità di una emigazione di massa per evitare una catastrofe; secondo la Foa grazie ad accordi stipulati fra la Germania nazionalsocialista e il capo dello Yishuv Ben Gurion circa quattrocentocinquantamila ebrei sarebbero emigrati in Palestina. Temendo che il massiccio afflusso di nuovi arrivati inducesse gli arabi a sostenere i paesi dell'Asse, gli inglesi avrebbero drasticamente ridotto le quote di immigrati ammessi, di fatto lasciano alla mercè dei nazionalsocialisti tedeschi il mondo ebraico europeo. Nel 1942 con la dichiarazione Biltmore i dirigenti sionisti avrebbero espresso l'intento di insediare uno "stato ebraico" e non più binazionale, e che l'immigrazione venisse gestita dall'Agenzia Ebraica e non dalla potenza mandataria. Il testo ripercorre anche la storia della partecipazione dello Yishuv alle ostilità contro la Germania, ricordando il tentativo di infiltrazione dei paracadutisti di Enzo Sereni e i cinquemila combattenti britannici della Brigata Ebraica Palestinese. Dopo la fondazione dello stato sionista le formazioni politiche del sionismo revisionista e della sinistra estrema avrebbero accusato Ben Gurion di non essersi impegnato a sufficienza per salvare dallo sterminio gli ebrei d'Europa; la Foa scrive accenna anche a ripercussioni sul piano giudiziario. Le divisioni politiche sarebbero sopravvissute alla risoluzione dell'ONU del 29 novembre del 1947 e dopo l'indipendenza si sarebbero tradotte nel sussistere di una maggioranza combattente socialista riunita nello Haganah e nelle due formazioni di destra dello Irgun (responsabile del massacro di Deir Yassin, avvenuto il 9 aprile 1948) e del Lehi. L'autrice nota che nelle ostilità successive al 14 maggio 1948 nessuno degli eserciti arabi sarebbe penetrato in profondità nel territorio che l'ONU aveva assegnato allo stato sionista; la storiografia recente avrebbe rilevato la necessità degli Stati arabi di placare l'opinione pubblica e l'intenzione di impossessarsi di territori palestinesi più che di eliminare lo stato sionista. Dalla vittoria il sionismo sarebbe uscito radicalmente trasformato nella sua natura e nella sua ideologia, con la cancellazione delle correnti favorevoli alla convivenza e una svolta verso forme di insediamento di tipo coloniale. La Foa nota che l'identificazione del sionismo col colonialismo, nata attorno al 1920 in ambiente palestinese e divenuta molto rilevante negli anni Sessanta con la creazione del movimento nazionale di liberazione fondato da Arafat, sarebbe stata rafforzata dalla collocazione politica filooccidentale dello stato sionista, dal suo schierarsi con le ultime velleità colonialiste europee ai tempi della crisi di Suez nel 1956 e soprattutto dalla questione dei territori occupati nel 1967. La Foa ritiene che la guerra del 1948 e lo sviluppo rapido della Nakba ben analizzato da Benny Morris abbia segnato una cesura, nella storia di un movimento che critici come Derek Penslar considerano sì nato in opposizione all'Europa, ma animato anche dall'idea di una superiorità della civiltà europea. La popolazione araba rimasta nello stato sionista sarebbe rimasta soggetta a limiti sanciti giuridicamente, oltre che a quelli determinati dai rapporti sociali. Oltre a Deir Yassin la Foa ricorda anche l'eccidio di Kfar Kassem del 1956, i cui colpevoli furono di fatto sanzionati con tre anni di detenzione.
L'autrice ricorda come la pace -di fatto una tregua- del 1948 fosse rimasta precaria per molti motivi, tra cui la poca disposizione dello stato sionista verso cponcessioni rilevanti e la nulla volontà dei leader arabi di andare contro le rispettive opinioni pubbliche. Dopo il 1952 il golpe di Nasser, l'appoggio sovietico all'Egitto e l'intervento dello stato sionista a fianco di Francia e Gran Bretagna nella crisi di Suez avrebbero prodotto un sostanziale cambiamento nei rapporti con i paesi arabi, che avrebbero iniziato a considerare lo stato sionista come il braccio armato dell'imperialismo occidentale e a considerarne la distruzione un obiettivo. La Foa scrive di come la Guerra dei Sei Giorni avrebbe avuto come casus belli la chiusura del golfo di Aqaba alle navi dello stato sionista, ma sarebbe in realtà giunta dopo continui incidenti di frontiera e dopo un'ondata di "frenetica e violenta propaganda" che avrebbe spinto alla guerra con lo stato sionista "tutte le capitali arabe". Alla vittoria sorprendente e fulminea di una guerra "cominciata come difensiva" lo stato sionista non avrebbe saputo far seguire la vittoria della pace. Ad eccezione di Gerusalemme, annessa e dichiarata "capitale indivisibile" nel 1980 senza riconoscimento internazionale, i territori conquistati sarebbero stati tenuti senza un'annessione vera e propria "in attesa e in cambio della pace". Oltre alla pura e semplice annessione sostenuta dagli ultranazionalisti la Foa ricorda anche le pessime previsioni del filosofo Yeshayahu Leibowitz, convinto che gli ebrei non avessero alcun diritto divino sulla terra di Israele e che l'occupazione avrebbe avvelenato l'animo dei cittadini ebrei dello stato sionista. Leibowitz per primo, preoccupato innnanzitutto dei principi morali degli ebrei, avrebbe fatto in proposito scoperti paragoni con il nazionalsocialismo. L'ubriacatura nazionalista successiva all'occupazione di Gerusalemme Est avrebbe influito profondamente anche sull'identità del sionismo, che avrebbe iniziato a diffondere l'idea del "sionista religiioso aggressivo e ispirato da Dio"; la Foa ricorda l'inizio del fenomeno degli insediamenti nella West Bank ad opera di gruppi estremisti messianici confluiti poi nel Gush Emunim di Tzvi Jehuda Kook. Con la Guerra dei Sei giorni sarebbe cambiato anche il fronte dei nemici; l'OLP di Yasser Arafat ne sarebbe diventato il perno. Il fortissimo senso di superiorità militare diffusosi nello stato sionista avrebbe fatto trascurare fra le altre cose la possibilità di arrivare a una pace almeno con l'Egitto; la successiva guerra del Kippur nel 1973 sarebbe stata vinta dallo stato sionista col determinante sostegno del ponte aereo statunitense per armi e munizioni. La Foa chiude il capitolo ricordando come dal 1973 in poi le trattative con l'OLP si sarebbero protratte per decenni senza esito; fino al 1998 l'OLP avrebbe mantenuto una posizione contraria all'esistenza stessa dello stato sionista, e lo stato sionista si sarebbe dimostrato impermeabile a qualsiasi trattativa sui confini e sul ritorno di profughi ormai cresciuti fino a due milioni e mezzo di individui.
Il secondo capitolo tratta dell'influenza della nascita dello stato sionista sull'identità ebraica. L'autrice sottolinea come la "legge del ritorno" del 1950 avrebbe posto netta enfasi sull'essenza di "Stato degli ebrei" dello stato sionista, rafforzando la cesura con una diaspora intesa come "mondo di prima". La Foa scrive che nella penisola italiana non si sarebbe verificato un forte movimento di emigrazione perché i deportati locali, a differenza di quelli polacchi, avevano avuto "qualcosa a cui tornare" e avrebbero potuto contare su un vasto movimento di opinione che avrebbe aiutato le comunità a ricostituirsi e i deportati dell'Europa orientale a fare aliya dai porti della penisola. In Palestina l'incontro fra gli scampati allo sterminio e lo Yishuv non sarebbe stato facile per il rapido adattamento imposto a nuovi arrivati non sempre e non necessariamente appartenenti al sionismo più orgoglioso. L'autrice scrive che solo col processo a Eichmann nel 1961 lo stato sionista -in cui era diffusa la convinzione che gli ebrei d'Europa si fossero fatti sterminare come pecore al macello- avrebbe iniziato a considerare la diaspora come parte della propria storia. Col processo a Eichmann sarebbe nato quello che la Foa chiama il paradigma vittimario; lo sterminio sarebbe diventato parte integrante e fondante dello stato sionista, la rivolta del ghetto di Varsavia il fondamento del passaggio "da una diaspora avvilita e conculcata a un mondo ebraico combattivo ed eroico" nonostante alcuni protagonisti di essa come Marek Edelman si fossero espressi molto criticamente verso lo stato sionista. La Foa definisce il processo ad Eichmann come un processo allo sterminio in cui si sarebbero sanati i dissidi nati dall'accusa delle destre a Ben Gurion di non aver fatto abbastanza durante la guerra. Con esso la società dello stato sionista avrebbe iniziato a definirsi in relazione allo sterminio, conferendo metaforicamente la cittadinanza alle vittime e assumendole simbolicamente nel proprio corpo politico. Il fatto che anche gli ebrei diasporici facessero della memoria dello sterminio uno dei pilastri della propria identità avrebbe ulteriormente saldato la realtà ebraica dello stato sionista e quella della diaspora, al punto che nel sentire comune del mondo non ebraico ebrei e cittadini dello stato sionista avrebbero iniziato a essere assimilati o anche confusi. Una lunga serie di attentati compiuti da organizzazioni palestinesi avrebbe contribuito a questo processo. Negli stessi decenni le aliyot di ebrei yemeniti, nordafricani, iracheni, siriani, libanesi ed egiziani avrebbero fortemente modificato l'identità della popolazione dello stato sionista; l'arrivo di mizrachim considerati poveri e arretrati dalla vecchia élite ashkhenazita laburista avrebbe comportato anche cambiamenti sul piano politico agevolando l'ascesa delle destre. Anna Foa ricorda anche il sostanziale impatto degli arrivi dall'ex URSS: oltre un milione di persone che avrebbe fatto del russo la terza lingua dello stato sionista e che con la loro competenza avrebbero fattivamente contribuito allo sviluppo economico e tecnologico dello stato sionista a partire dagli anni Novanta. L'autrice ricorda gli aspetti pubblicamente rilevanti dell'osservanza religiosa e propende per una loro sottovalutazione all'epoca della fondazione dello stato sionista: i sionisti religiosi "fanatici della grande Israele data da Dio al popolo ebraico" si sarebbero in poche generazioni rafforzati per numerosità e rilevanza, insieme agli haredim dediti allo studio. La politica risulterebbe fortemente influenzata dall'esistenza di una popolazione religiosa e di una popolazione laica divise da una spaccatura profonda. Il profondo coinvolgimento diffuso nella diaspora verso le vicende dello stato sionista non comporterebbe secondo la Foa l'appoggio per tutti gli aspetti della politica governativa; la guerra in Libano del 1982 avrebbe comportato una frattura netta con parte della diaspora e l'autrice nota come i fatti di Sabra e Chatila sarebbero stati accolti da grandi manifestazioni di protesta nello stesso stato sionista. Dopo gli anni Ottanta la diaspora avrebbe perso molta parte della propria fisionomia, appiattendosi sullo stato sionista soprattutto in realtà poco segnate dalla presenza di congregazioni riformate o conservative come la penisola italiana. La Foa arriva a sostenere che i "tre mondi ebraici" del dopoguerra sarebbero diventati sostanzialmente due, quello dello stato sionista e quello statunitense, e che l'ebraismo europeo avrebbe perso ogni autonomia e ogni progettualità culturale o politica rispetto allo stato sionista. Per i palestinesi i numeri -ascesi a circa cinque milioni di persone contando i discendenti stabilitisi fuori dai campi libanesi, giordani, siriani e di Gaza- sarebbero tali da rendere il problema del ritorno dei profughi, conditio sine qua non per i palestinesi in ogni trattativa, uno dei principali ostacoli alla pace. Fin dal 1949 la linea verde dell'armistizio avrebbe rappresentato "un'irruzione violenta nella vita quotidiana degli arabi" e da allora il ricollocamento e l'attraversamento delle frontiere sarebbero diventati punti centrali per la comprensione del significato e della natura dell'identità palestinese, che avrebbe al centro la Nakba proprio come l'identità ebraica dello stato sionista avrebbe al centro il processo Eichmann. In entrambe le identità catastrofe e trauma avrebbero un ruolo centrale e la narrazione nazionale ruoterebbe in gran parte attorno a motivi legati all'essere vittime e alla perdita subita.
44 Nel terzo capitolo intitolato Verso la pace, contro la pace la Foa riassume le principali vicende del processo di pace con l'Egitto e con la Giordania fino agli accordi di Oslo del 1993 che avrebbero sancito la nascita dell'Autorità Nazionale Palestinese. La strage nella moschea di Hebron da parte di Baruch Goldstein (la cui tomba sarebbe oggi meta di pellegrinaggi da parte di sionisti religiosi) e l'assassinio di Rabin per mano di Yigal Amir avrebbero raggiunto il risultato atteso, ovvero il fallimento del processo di pace con i nulla di fatto di New York nel 2000 e di Annapolis nel 2007. Gli esecutivi guidati da Benjamin Netanyahu si sarebbero poi opposti in ogni modo alla trasformazione in Stato autonomo dell'Autorità Nazionale Palestinese. La Foa scrive che durante gli anni la politica degli insediamenti, iniziata già sotto i governi laburisti, avrebbe occupato sempre più territori nella West Bank; accenna quindi alla seconda Intifada del 2000 e all'ascesa di Hamas prima di descrivere la realizazione del muro di confine iniziata nel 2002. L'uso del vocabolo apartheid si sarebbe diffuso da allora anche tra i cittadini dello stato sionista; la Foa non crede adeguato il vocabolo se con esso si intende una separazione totale di due mondi, mentre "il discorso cambia" se per apartheid si intendono "le strade separate, le interminabili attese dei palestinesi ai check point e altre vessazioni piccole e grandi che delineano una rete di quotidianità persecutoria". Accennando alla nascita e all'ascesa di Hamas, l'autrice ricorda che per anni Hamas godette in una certa misura anche del sostegno dello stato sionista, che l'avrebbe considerata meno pericolosa delle organizzazioni laiche. La violenta campagna di attentati suicidi con cui Hamas avrebbe reagito dopo la strage di Hebron viene consierata dalla Foa come determinante per minare la fiducia della società dello stato sionista nei confronti delle trattative di pace. Dopo la vittoria delle elezioni a Gaza, scrive l'autrice, lo stato sionista avrebbe imposto di fatto un invasivo controllo sul territorio della città, periodicamente destinato a trasformarsi in guerra vera e propria.
L'ultimo capitolo del libro inizia con una rassegna di casi di quel fanatismo religioso deprecato da Amos Oz che opera per la ricostruzione della Israele biblica, dai coloni armati della West Bank ai gruppi seriamente intenzionati a distruggere la moschea di Al Aqsa per edificare il "terzo tempio". La Foa è convinta che uo Stato ebraico sia necessariamente fondato sulla supremazia degli ebrei rispetto agli altri cittadini e che su una premessa del genere non sia possibile costruire una società democratica. Dal proposito di offrire pari cittadinanza a tutti, come scritto nella dichiarazione di indipendenza del 1948, il sionismo sarebbe passato al sogno della Grande Israele biblica cara agli estremisti religiosi. Nel 2018 la legge varata da Netanyahu avrebbe sancito il carattere escludente dello stato sionista, e in particolare il fatto che il diritto ad esercitarvi l'autodeterminaziona nazionale apparterrebbe solo al popolo ebraico. Secondo il postsionismo cui fa cenno l'autrice, lo stato sionista avrebbe ormai svolto il proprio compito e dovrebbe evolvere in uno stato democratico per tutti i cittadini. La situazione politica dopo gli attacchi di Hamas del 7 ottobre 2023 sarebbe invece improntata in tutt'altro modo, la Foa ricorda le formazioni di estrema destra che sostengono l'esecutivo e si serve di un'aneddotica molto chiara per tracciare un ritratto di Itamar Ben Gvir e di Bezazel Smotrich, rispettivamente leader di Otzma Yehudit e di Tkuma. Secondo l'autrice la loro presenza nell'esecutivo Netanyahu sarebbe stata fondamentale per gli avvenimenti del 7 ottobre, perché il confine di Gaza sarebbe stato lasciato sguarnito per inviare reparti a proteggere gli insediamenti illegali e le aggressioni dei coloni contro i palestinesi in Cisgiordania. La condotta dell'esecutivo sionista secondo la Foa sarebbe volta alla costruzione di un paese autoritario, nel silenzio pressoché completo degli ebrei diasporici. Il perdurare pluridecennale di una politica fatta di "Dichiarazioni intempestive, insediamenti minuscoli e inutilmente provocatori, confische di terre arabe peraltro spesso sconfessate dall’Alta Corte di Giustizia, internamenti amministrativi, distruzione di case con la dinamite, espulsioni e repressione fondata sul principio della responsabilità collettiva" avrebbe contribuito a danneggiare l'immagine dello stato sionista a livello mondiale come e più della propaganda dei suoi avversari. L'amplissima impopolarità dello stato sionista e della sua politica induce la Foa a prendere in esame il fenomeno dell'antisemitismo e le sue due definizioni più recenti. La prima della International Holocaust Remembrance Alliance -adottata anche dallo stato che occupa la penisola italiana- statuirebbe un legame stretto fra antisionismo e antisemitismo. La seconda, prevalente in ambienti accademici statunitensi e dello stato sionista a quanto pare più attenti di Roma alle conseguenze del bollare ogni critica come antisemita, lo definirebbe invece come "la discriminazione, il pregiudizio, l’ostilità o la violenza contro gli ebrei in quanto ebrei o le istituzioni ebraiche in quanto ebraiche". La Foa sottolinea come Netanyahu accusi di antisemitismo ogni opposizione alla sua politica e come nella penisola italiana sia d'altro canto frequente imbattersi in qualcuno che equipara il sionismo al colonialismo e allo apartheid senza che questo autorizzi abusati paragoni con la realtà del 1938. La Foa nota che il movimento BDS nato nel 2005 nell'Università di Bir Zeit sarebbe diventato forte e influente a scapito dei movimenti progressisti dello stato sionista assai più che a detrimento di un esecutivo propenso a vantarsi del proprio isolamento e comunque poco interessato alla cultura e agli scambi culturali. Lo slogan su una Palestina libera dal fiume al mare denunciato come biecamente antisemita secondo l'autrice farebbe torto a quanti, pur sionisti, avrebbero sostenuto in passato l'idea di uno stato binazionale, mentre la linea politica di Netanyahu e l'uso cinico fatto dello sterminio degli ebrei d'Europa metterebbe in discussione la testimonianza degli scampati, oltre a essere opera di un esecutivo che tiene molto alla patente di unica democrazia del Medio Oriente quando di fatto "non esita a colpire vecchi e bambini per uccidere un solo capo di Hamas che sarà sostituito da un altro dopo pochi giorni".
La Foa rivendica la storia di un sionismo molto più ricco e diversificato di quello che oggi rappresenta il volto dello stato sionista e che avrebbe potuto contare su molte realtà minoritarie la cui agibilità sarebbe oggi semplicemente fuori discussione. L'operato di Ben Gurion, col suo sostanziale presentare il conto dello sterminio anche agli abitanti arabi della Palestina, sarà stato anche guidato da strumentale cinismo; l'autrice non lo considera però paragonabile al cinismo di cui darebbe quotidiana prova oggi lo stato sionista.
Anna Foa constata che la distruzione politica di Hamas non potrebbe aversi senza la fondazione di uno Stato palestinese e sanza un accordo politico con una parte dei paesi arabi, cose che nell'agenda di Netanyahu -che avrebbe definito "antisemita" anche la decisione di alcuni paesi dell'Unione Europea di riconoscere lo Stato di Palestina- non avrebbero alcuno spazio. Auspicando la fine il più possibile prossima di un esecutivo che a sua detta starebbe portando al suicidio lo stesso stato sionista, la Foa ritene che non esistano alternative alla trattativa e al compromesso. Anche in circostanze in cui si presenta lungo e difficile anche il percorso per la semplice convivenza.
Anna Foa - Il suicidio di Israele. Bari, Laterza 2024. 104pp.
Anna Foa - Il suicidio di Israele
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