Traduzione da Conflicts Forum.
Che dire di quello che sta succedendo in Iraq? Finalmente abbiamo qualche punto fermo cui attaccarci, qualcosa che permette di capire in qualche misura quello che sta succedendo. In verità, anche per chi è testimone diretto degli eventi, le domande sono ancora molte di più delle risposte. Questo, per quale motivo? Pensiamo che per far luce sulla profonda incomprensibilità delle motivazioni alla base di quanto sta succedendo -vale a dire dell'irrompere a valanga in Iraq del Da'ish, detto anche Stato Islamico in Iraq e nel Levante- si debbano cercare di capire le complesse intersezioni che le radici profonde della psicologia religiosa -cosa diversa dal mero settarismo- hanno con la geopolitica. Se consideriamo gli eventi nella mera ottica delle considerazioni geostrategiche, ne ricaviamo un quadro troppo frammentato. Se invece prendiamo in considerazione gli eventi nel contesto della psicologia religiosa (una psicologia in cui gli eventi acquistano sicuramente un significato sia per i membri del Da'ish sia per i suoi molti simpatizzanti sunniti), notiamo che i due àmbiti, quello geostrategico e quello psicologico, possono presentare dei punti di intersezione, e che li presentano effettivamente.
Su quali punti fermi possiamo contare? Il Da'ish è "entrato a Mossul" senza imbattersi in alcun tipo di resistenza. Anzi, la presa della città era stata preparata da settori significativi della società irachena che almeno formalmente non sostengono il jihad: in particolare da ex ufficiali del disciolto esercito di Saddam Hussein, alcuni dei quali militavano -o militano a tutt'oggi- nel partito Ba'ath. Mille e trecento combattenti non occupano senza spargimento di sangue una città di due milioni di abitanti senza un beneplacito di una qualche rilevanza da parte degli appartenenti all'esercito iracheno di oggi. Questo significa che la conquista è stata certamente preparata con cura in anticipo e sicuramente è stata facilitata dal fatto che molti soldi sono passati di mano. Chi sia il fornitore ultimo di questo denaro non è dato saperlo. In secondo luogo l'instaurazione del "califfato" da parte del Da'ish è stata accolta con approvazione da molti sunniti in Iraq e fuori, nonostante si possa pensare che quello che hanno passato li spingerebbe a temere una simile forma di governo. Che cosa unirebbe mai i baathisti laici e gli ex ufficiali di professione dell'esercito all'intolleranza violenta del Da'ish e alla sua pretesa di vedersi riconosciuta un'egemonia senza condizioni? Non lo sanno che cosa è successo agli utopici riformisti della città di Aleppo, quando sono arrivati i rivoluzionari jihadisti sitibondi di vendetta? Eppure, il dato di fatto è tanto chiaro quanto difficile da mandare giù: molti iracheni sunniti -e molti sunniti in generale, fino a settori molto oltre a quelli che potrebbero in qualche modo essere visti come la base naturale del Da'ish- vanno asserendo oggi che preferirebbero vivere una vita precaria all'ombra della ghigliottina e di un regime rivoluzionario giacobino, piuttosto che sotto l'amministrazione sciita di Al Maliki. In questo, scopriamo qualcosa di profondo nella psicologia di questi sunniti. A dire il vero dobbiamo anche notare come esistano molti sunniti che stanno fuggendo da questa situazione e che vi si stanno opponendo.
In terzo luogo, il blitzkrieg contro l'Iraq è stato condotto molto bene, molto professionalmente dal punto di vista militare e in maniera molto avveduta dal punto di vista politico. Il Da'ish si è sottratto alla ignominia dell'incombente sconfitta della propria "divina" missione in Siria -con tutte la ripercussioni metaforiche tratte di peso dalla storia dei primi anni dell'Islam che una sconfitta avrebbe comportato- ed ha sferrato un grosso colpo ad un Iraq che si è rivelato fragile come il cristallo. Il Da'ish è riuscito a trasformare la sconfitta imminente in un colpo audace che, almeno fino ad oggi, ha mandato in frantumi la cristalleria rappresentata dalla stabilità in Iraq, mettendo rudemente a nudo le linee di frattura che dividono lo stato iracheno. L'ampiezza stessa del colpo e la prospettiva che per i sunniti possa nascere un punto di riferimento, una specie di staterello che possa fare da punto d'appoggio sicuro, esteso sui territori che ci sono tra Siria ed Iraq, ha sicuramente toccato corde profonde della psiche dei sunniti e dei paesi del Golfo. Un ex ambasciatore del Qatar negli USA ha ammonito il governo Obama a non intervenire a fianco di al Maliki; una cosa del genere sarebbe considerata un atto di guerra dall'intera comunità dei paesi arabi sunniti. Questo, non per la psicologia dei sunniti siriani; i siriani hanno accolto con preoccupazione il secondo cedimento militare iracheno, paragonato all'esito opposto che la loro resistenza ha conseguito confrontandosi con l'ISIL.
Tutta questa eccitazione per il Da'ish possiamo attribuirla al desiderio di rivalsa dei baahtisti? Di sicuro i baathisti sono stati estromessi dal potere, dal punto di vista politico sono stati cancellati dall'esecutivo, sono stati espulsi dall'esercito, sono stati aggrediti prima dagli ameriKKKani e poi dalle milizie del nuovo governo iracheno, e parecchi a Mossul, a Tikrit e nella provincia di Anbar nutrono una profonda antipatia nei confronti dell'Iran e del nuovo governo di Baghdad che è filoiraniano; sono vecchi rancori che risalgono ai tempi della rivoluzione in iran. Parecchi sunniti iracheni sono, e con ragione, preoccupati ed arrabbiati. Ma l'ideologia baathista in sé non può spiegare il patto faustiano stretto da alcuni baathisti col Da'ish. L'ideologia baathista così com'era in Iraq era stata in gran parte svuotata dal proprio contenuto, e in occasione della guerra del 2003 si è rivelata insufficiente a funzionare come collante identitario. Qualche volta, al salire delle tensioni settarie l'identità baathista si dissolve, e torna preponderante quando queste ultime vengono meno. Quando si ridestano, le tensioni settarie fanno troppo facilmente strame di ogni altra identità. Con questo non si vuole sostenere che tutto quello che succede in Iraq può essere ricondotto ad una questione settaria. Ci sono anche aspetti politici e geostrategici, ma sono comunque le tensioni settarie e non l'ideologia ad alimentare l'attrazione dei baathisti verso i takfiri dell'ISIL.
Un altro modo di considerare quanto accade potrebbe essere quello di pensare a come apparirebbero le cose in un'ottica religosa e psicologica. In ogni caso, sarebbe questa l'ottica in cui considererebbero il dipanarsi evenemenziale della storia quanti provano attrazione per il blitzkrieg dell'ISIL. Il cosiddetto "Risveglio" è stato visto da molti sunniti come un fenomeno specificamente sunnita. All'inizio, pareva che il "Risveglio" avrebbe mietuto delle vittorie conclamate: sembrava il trionfo della battaglia di Badr, in cui il piccolo corpo armato costituito dai trecentotredici sostenitori dell'Inviato sconfisse nel 624 d.C. un esercito della Mecca tre volte più numeroso. Solo che poi è arrivato il riflusso, ovvero la Siria nelle condizioni in cui si trova oggi, oppure, per continuare a seguire l'allegoria, la battaglia sunnita di Uhud, in cui le forze dell'Inviato vennero sconfitte nel 625 perché un contingente di fondamentale importanza non riuscì ad eseguire il principale compito che gli era stato affidato. Solo che dopo questo avvio incerto, che sembrava minacciare l'intero piano musulmano, le forze dell'Inviato non persero più nessuna battaglia. Il Da'ish può benissimo considerare anche la difficile situazione in Siria in un'ottica del genere, come una vittoria degli sciiti che minaccia tutto il piano sunnita, soprattutto in considerazione del fatto che nello stesso periodo i modelli di stato cui i sunniti si riferivano sono andati in frantumi. In quest'ottica le prime vittorie del Da'ish in Iraq, incredibilmente facili, possono essere considerate come i prodromi della prossima sconfitta di Al Maliki e dell'Iran; allo stesso modo l'Inviato passò di vittoria in vittoria dopo la battuta d'arresto di Uhud.
Questi miti avrebbero una forte eco nei paesi del Golfo, ma più prosaicamente i sauditi potrebbero arrivare a concludere che nella battaglia di Uhud dei giorni nostri rappresentata dalla Siria l'Iran ha scelto di seguire la "politica del sangue", come l'ha chiamata uno dei nostri interlocutori che conosce bene l'Arabia Saudita. In Siria è stato versato sangue sunnita, e se si vuole ristabilire un equilibrio nella regione ci dev'essere una contropartita dello stesso genere. Se gli unici mezzi per arrivarci sono l'ISIL e l'ex esercito di Saddam Hussein, non resta che utilizzarli. E' possibile che tutto questo venga considerato da qualcuno, nel Golfo, come un modo di ristabilire un equilibrio geostrategico: i protetti dell'Iran ne fanno le spese (e vengono fuori i punti deboli iraniani in Iraq) e si consolida qualcosa di simile ad un territorio schiettamente sunnita, quand'anche fosse il "califfato" dell'ISIL che magari potrà servire -come magari pensa qualche politico del Golfo- come base per discutere con gli USA del loro riavvicinamento all'Iran e come punto di partenza per un accordo politico tra Arabia Saudita ed Iran.
E' realistico, tutto questo? Probabilmente no. L'ardente entusiasmo con cui i sunniti iracheni e del Golfo accolgono le gesta dell'ISIL può raffreddarsi alla svelta, e rivelarsi un fuoco di paglia proprio com'è successo in Siria, dove davvero si è fatta esperienza di cosa voglia dire farsi governare dall'ISIL. L'ISIL, con ogni evidenza, non riuscirà ad impossessarsi militarmente dell'Iraq; le loro incursioni hanno già fatto sì che le tradizionalmente litigiose fazioni sciite del paese si coalizzassero contro il nemico, ed il nuovo "Califfato" riuscirà a tirarsi addosso ostilità da ogni parte: dall'Esercito Arabo Siriano per quanto riguarda il territorio in Siria, dai curdi, dall'Iran a Diyala ed anche dalla maggioranza degli iracheni. Se l'Iran giocherà le proprie carte con prudenza come ha fatto fino ad oggi e riuscirà a tenere unite le fazioni sciite, a fare in modo che i sunniti iracheni contrari al predominio del Da'ish non finiscano tra le braccia dell'ISIL a causa della esagerata assertività dei loro compatrioti sciiti, e se Tehran riuscirà a tenere a bada l'innata sospettosità di Al Maliki, è possibilissimo che gli iraniani riescano ad evitare di pagare il proprio tributo di sangue. Soltanto uno riuscito attacco dell'ISIL ai sacrari di Samarra, Karbala o Najaf potrebbe far saltare ogni calcolo. In questo caso, possiamo attenderci l'esplodere di una guerra settaria a tutto campo.
E' facile, per chi vede le cose dall'esterno, incolpare il Primo Ministro Al Maliki per ogni cosa che non va in Iraq. Solo che non è stato Al Maliki a instaurare la regione autonoma curda, o ad armare i peshmerga; non è stato Al Maliki a congedare l'esercito di Saddam Hussein o ad intraprendere il percorso di epurazione che ha allontanato i sunniti dal potere. E' vero che il Primo Ministro nutre sospetti nevrotici in materia di complotti che sarebbero rivolti contro di lui e che questo si è rivelato patologico per come ha necrotizzato ed ossificato la politica irachena. Ma la sua prudenza e i suoi sospetti, anche se dal punto di vista politico sembrano esagerati e dannosi, difficilmente possono essere considerati privi di fondamento.