Le false promesse delle élite mondiali sull'economia liberista, presentata come panacea per tutti i mali grazie al suo elisir di crescita perenne, aiutano a spiegare i movimenti nazionalisti arrabbiati che stanno mandando in pezzi la politica occidentale, pensa l'ex diplomatico britannico Alastair Crooke.


Da Consortium News, 14 ottobre 2016

Raul Ilargi Meijer è un esperto editorialista economico ed ha scritto, in modo stringato e provocatorio, che
E' finita. Il modello su cui le nostre società si sono basate almeno per tutto il tempo in cui siamo vissuti è arrivato alla fine. Ecco perché esistono i Trump.Non c'è nessuna crescita. Non c'è da anni una vera crescita. Ci sono soltanto i vuoti ed insignificanti, ottimistici numeri dei mercati borsistici di Standard and Poor, drogati da uno stracciato costo del denaro e dai buyback, e datori di lavoro che nascondono ai lavoratori indicibili quantità di denaro. E soprattutto esiste il debito, pubblico o privato che sia, che è servito a mantenere in vita una crescita illusoria; le possibilità di ricorrervi sono sempre meno, adesso.  
I falsi dati sulla crescita servono ad una cosa soltanto; servono a far sì che la massa lasci i potenti in carica sulle lore comode poltrone. Solo che sono sempre riusciti ad opporre il velo di Oz agli occhi altrui tante e tante volte; ora, quelle tante volte sono finite.
Ecco il perché dei Trump, delle Brexit, dei Le Pen e di tutto il resto. Basta, fine. Tutto quello che ci ha fatto da guida per tutta la nostra esistenza ha perso la direzione e ha perso potenza.
Meijer scrive poi:
Siamo nel bel mezzo del più importante mutamento globale degli ultimi decenni, per certi aspetti addirittura degli ultimi secoli; una rivoluzione vera e propria, che continuerà a rappresentare il più importante fattore impattante sul mondo nei prossimi anni. Nonostante quello, non mi pare che nessuno ne faccia parola. La cosa mi ha sorpreso.Il mutamento di cui sto parlando è la fine della crescita economica mondiale, che porterà inesorabilmente alla fine dei processi centralizzati, globalizzazione compresa. Comporterà anche la fine della maggior parte delle istituzioni internazionali, soprattutto di quelle più potenti.
Sarà la fine anche per quasi tutti i partiti politici tradizionali, rimasti per decenni al governo nei rispettivi paesi e già oggi ai livelli record di impopolarità. Se non avete idea di cosa sta succedendo, date un'occhiata qui in Europa!
Non è questione di cosa vogliono questo o quello, o questo o quel gruppo. Sono in gioco forze ben al di là del nostro controllo, la cui grandezza e la cui portata va oltre la nostra opinione, nonostanti si possa trattare di fenomeni costruiti dall'uomo.
Un sacco di persone più o meno intelligenti si stanno rompendo la testa per cercare di capire da dove vengano Trump e la Brexit e Le Pen e tutti questi spaventosi individui e fenomeni e partiti nuovi. Arrivano a formulare teorie incerte e di piccola portata che chiamano in causa gente anziana, gente impoverita razzista e bigotta, gli stupidi, quelli che alle elezioni si sono sempre astenuti, ogni genere di individui.
Solo che nessuno sembra capire o comprendere davvero. E questo lascia stupiti perché non è che la questione sia così difficile. Tutto questo succede perché la crescita è finita. E se finisce la crescita finiscono anche l'espansione e la centralizzazione, in tutta la loro miriade di varietà e di forme.
Più avanti Meijer scrive:
La dimensione globale intesa come prima forza trascinante è finita, il paneuropeismo è finito, e il fatto che gli Stati Uniti continueranno a rminaere tali è tutt'altro che un dato scontato. Stiamo andando verso un movimento di massa favorevole a decine di paesi e di stati separati, e di società che guardano al passato. E tutte si trovano ad affrontare un qualche problema incombente di un qualche genere.Quello che rende la situazione così difficile da affrontare per chiunque è che nessuno vuol prendere atto di nulla di tutto questo. Esattamente dagli stessi luoghi da cui vengono i Trump, la Brexit e i Le Pen arrivano storie di amara povertà.
Il fatto che il baraccone politico, economico e mediatico sforni ventiquattr'ore su ventiquattro e sette giorni su sette messaggi positivi sulla crescita può anche costituire una parziale spiegazione del perché manchino consapevolezza e riflessione, ma si tratta di una spiegazione parziale. Il resto è dovuto a come siamo fatti noi stessi: pensiamo di meritarla, la crescita a tempo indeterminato.
 
La fine della crescita
 
Insomma, la crescita economica globale è finita? Raul Ilargi parla un po' all'ingrosso perché ci sono anche esempi di crescita economica in cui non c'è stata alcuna contrazione, ma è chiaro che gli investimenti basati sul debito e sulle politiche di bassi tassi di interesse si stanno rivelando sempre meno efficaci nel risultare in crescita economica o in aumento degli scambi, e a volte non lo sono per niente. Tyler Durden di ZeroHedge scrive:
"Dopo quasi due anni di programmi centrati sul quantitative easing i dati economici nella zona euro rimangono molto deboli. Come spiega il GEFIRA l'inflazione è ancora attorno allo zero e il PIL della zona euro ha inziato a rallentare invece di accelerare. Secondo i dati della Banca Centrale Europea, per creare un euro di crescita di PIL occorrono diciotto euro e mezzo di quantitative easing... Quest'anni la BCE ha emesso quasi seicento miliardi nell'àmbito del programma per l'acquisto di titoli (il quantitative easing)."
Le banche centrali possono anche produrre e stampare denaro, ma questo non significa creare ricchezza o acquisire potere d'acquisto. Incanalando il credito creato verso gli intermediari delle banche a garanzia dei prestiti verso i loro clienti di favore le banche centrali garantiscono potere d'acquisto ad un determinato gruppo di soggetti; questo potere d'acquisto deve per forza venire da un altro gruppo di soggetti europei (nel caso della BCE, arriva dai cittadini) che vedranno ridurre il proprio potere d'acquisto e la discrezionalità con cui potranno spendere il proprio reddito.
L'erosione del potere d'acquisto non è del tipo più ovvio: non esiste una grossa inflazione e tutte le principali valute si stanno svalutando più o meno di pari passo; inoltre le autorità intervengono periodicamente abbassando il prezzo dell'oro, cosicché non esiste alcun segnale evidente per cui le persone possano capire fino a che punto arriva la perduta di valore di tutte le valute.
Anche il commercio mondiale sta sofferndo, come spiega in termini piuttosto eleganti Lambert Strether di Corrente. "Si torna alle spedizioni. Mi sono messo a seguire le spedizioni... un po' perché è divertente, ma soprattutto perché le spedizioni hanno a che fare con beni concreti, e seguire i percorsi delle merci mi è sembrato un modo molto più interessante di toccare con mano il funzionamento dell'economia; senz'altro più delle statistiche economiche, per tacere di tutti i libri di cui quelli di Wall Street parlano un giorno sì e l'altro pure. E non mi fate parlare di Larry Summers.
Quello che ho notato è che c'era un declino. E non si trattava di piccoli passi indietro seguiti da balzi in avanti, ma di un declino vero e proprio andato avanti per mesi e alla fine per un anno intero. Declina il trasporto ferroviario, persino quando le merci sono grano e carbone, e declina la domanda di vagoni. Declina il trasporto su ruota, e con esso la domanda di camion. Il trasporto aereo se la passa male. I porti del Pacifico non saranno affollati di merci sotto Natale. E adesso è arrivato anche il fallimento di HanJin, con tutti quei capitali fermi nelle navi alla fonda e coperto per solo dodici miliardi di dollari o qualcosa del genere, e l'ammissione generale che forse noi abbiamo investito un pochettino troppo in grandi navi e grandi imbarcazioni, il che significa -credo- che dobbiamo spedire molte meno merci di quello che pensavamo, almeno via mare.
Nel frattempo, in apparente contraddizione rispetto al lento collassare del commercio mondiale ed anche all'opposizione ai "trattati commerciali" uno dei pochi settori trainanti dell'immobiliare è quello dei magazzini, e la gestione delle catene di distribuzione è un campo esaltante. Un campo pieno di sociopatici fuori da ogni limite, e dunque dinamico ed in crescita!
Ecco, le statistiche economiche sembra dicano che non c'è nulla che non va. I consumatori sono il motore dell'economia e sono fiduciosi. Ma alla fin fine le persone hanno bisogno di beni perché si vive in un mondo materiale, anche se si è convinti di star vivendo a modo proprio. Un bel rompicapo. Io vedo una contraddizione: si muovono meno merci, ma i numeri dicono che va bene così. Ho ragione su questo? Allora, devo pensare che i numeri non sono significativi, ma le merci sì."

Un elisir fasullo
 
In altre parole, se vogliamo essere ancor più falsamente empirici come nota Bloomberg in A Weaker Currency is no longer the Elixir, It Once Was, "le banche centrali di tutto il mondo hanno tagliato i tassi di interesse per 667 volte dal 2008 in poi, secondo Bank of America. Nel corso di questo periodo le prime dieci valute agganciate al dollaro sono crollate del quattordici per cento e le economie del G8 sono cresciute in media dell'uno per cento appena. Secondo Goldman Sachs dalla fine degli anni Novanta un deprezzamento del dieci per cento al netto dell'inflazione nelle valute di ventitré economie avanzate ha spinto le esportazioni nette soltanto dello zero virgola sei per cento del PIL. Come raffronmto, c'è l'uno virgola tre per cento del PIL dei due decenni precedenti. Gli scambi commerciali tra gli USA e gli altri paesi sono passati a tremilasettecento miliardi di dollari l'anno nel 2015 dai tremilanovecento che erano nel 2014."
Fine della crescita, fine della globalizzazione. Su questo è d'accordo persino il Financial Times, il cui editorialista Martin Wolf scrive in The tide of Globalisation is turning: "Il meno che si possa dire è che la globalizzazione si è fermata. Si potrebbe tornare perfino indietro? Certamente. Occorre che le grandi potenze siano in pace... E' importante che la globalizzazione si sia fermata. Certamente."
La globalizzazione si è davvero fermata. Ma non a causa delle tensioni politiche, che sono un comodo giustificativo, ma perché la crescita è fiacca e questa debolezza è il risultato di una provata concatenazione di fattori che ne hanno causato l'arresto, oltre che del fatto che siamo entrati in una fase di deflazione che sta drasticamente contraendo quanto è rimasto del reddito disponibile al consumo per le spese a discrezione. Wolf ha comunque ragione. Inasprire le tensioni con Russia e Cina non risolverà i problemi del sempre più debole controllo ameriKKKano sul sistema finanziario mondiale, anche se la fuga dei capitali verso il dollaro potrebbbe far passare un fugace momento di rialzo al sistema finanziario statunitense.
Cala il sipario sulla globalizzazione. Ma cosa significa realmente questa espressione? Indica la fine del mondo finanziarizzato costruito dal neoliberismo? Difficile dirlo. Ma nessuno si aspetti rapidi dietrofront, e tantomeno delle scuse. La grande crisi finanziaria del 2008 all'epoca fu vista da molti come ultimo atto del neoliberismo. Ma le cose non sono andate così: anzi, il periodo di tagli e di austerità che seguì inasprì la sfiducia nello status quo ed aggravò la crisi che ha le sue radici nella diffusa opinione che "la società" in generale stia andando nella direzione sbagliata.
Il neoliberismo dispone di solide basi, non da ultimo nella troika europea e nell'eurogruppo che fanno gli interessi dei creditori e che grazie alle regole dell'Unione Europea sono arrivati a dominare la politica finanziaria e fiscale dell'Unione.
E' troppo presto per capire da dover arriverà la sfida all'ortodossia prevalente sul piano economico, ma in Russia esiste un aggregato di eminenti economisti che si sono riuniti nel gruppo Stolypin e che sta levando un nuovo interesse verso Friedrich List, il vecchio avversario di Adam Smith morto nel 1846, che sviluppò un "sistema nazionale di politica economica." List antepose gli interessi della nazione a quelli dell'individuo. Mise in risalto l'idea di nazione ed enfatizzò le particolari necessità di ogni nazione secondo le circostanze in cui essa si trova, soprattutto in rapporto al suo grado di sviluppo. List è noto per aver dubitato della sincerità delle invocazioni al libero mercato che arrivavano dai paesi sviluppati, con particolare riguardo al Regno Unito. In sostanza fu il primo no global.
 
 
Il dopo globalizzazione
 
Il pensiero di List potrebbe ben adattarsi alla corrente tendenza post-globalizzazione. La presa d'atto di List della necessità di una strategia industriale a livello nazionale e il suo ribadire il ruolo dello stato come garante finale della coesione sociale non sono cose cui sta flebilmente dietro soltanto una manciata di economisti russi. Si tratta di concetti che stanno facendo il loro ingresso nel discorso politico corrente. Proprio il governo May, nel Regno Unito, sta rompendo con il modello neoliberista che ha guidato la politica britannica dagli anni Ottanta in avanti; ed è una rottura che va verso un approccio alla List.
Sia come sia, che questo modo di vedere le cose torni in auge o meno, il docente e filosofo politico britannico molto attento ai fenomeni contemporanei John Gray ipotizza che la cosa stia in questi termini:
Il riaffermarsi dello stato è uno dei punti su cui il tempo presente si distanzia dai "tempi nuovi" pronosticati da Martin Jacques e da altri osservatori negli anni Ottanta. All'epoca sembrava che le frontiere nazionali stessero liquefacendosi e che si fosse prossimi all'instaurazione di un mercato libero globale. Io non ho mai trovato credibile questa prospettiva.Esisteva un'economia globalizzata prima del 1914, ma si basava sulla mancanza di democrazia. La mobilità di capitali e di forza lavoro priva di qualsiasi controllo può anche impennare la produttività e produrre ricchezza su una scala senza precedenti, ma ha anche un impatto fortemente distruttivo sulla vita dei lavoratori, specie quando il capitalismo entra in una delle sue crisi periodiche. Quando il mercato globale attraversa un brutto quarto d'ora il neoliberismo finisce nella spazzatura perchè si deve venire incontro ad una diffusa richiesta di certezze. Oggi, questo è quanto sta accadendo.
Se la tensione fra capitalismo globale e stato nazionale è stata una delle contraddizioni del thatcherismo, il conflitto tra globalizzazione e democrazia è stato la nemesi della sinistra. Da Bill Clinton a Tony Blair in poi il centrosinistra ha abbracciato il progetto del libero mercato globale con lo stesso ardente entusiasmo dimostrato dalla destra. Se la globalizzazione colpisce la coesione sociale, occorre riplasmare la società perché faccia da puntello al mercato. Il risultato? Ampi settori della popolazione sono stati abbandonati a marcire nella stagnazione o nella povertà, in qualche caso senza alcuna prospettiva di trovare un ruolo produttivo nella società.
Se Gray ha ragione ad affermare che quando l'economia globalizzata passa un brutto momento la gente esige che lo stato presti attenzione alla situazione economica dei loro paraggi, del loro paese e non alle utopistiche preoccupazioni della élite accentratrice, se ne deve concludere che la fine della globalizzazione comporta anche la fine della concentrazione della ricchezza in tutte le sue manifestazioni.
Ovviamente l'Unione Europea, che è un simbolo di questa asociale concentrazione, dovrebbe fermarsi un momento e riflettere. Scrive Jason Cowley, editorialista del New Statesman orientato a sinistra: "In ogni caso... comunque lo si voglia chiamare, [l'arrivo dei "tempi nuovi"] non porterà ad una rinascita della socialdemocrazia: sembra che in parecchi paesi occidentali stiamo invece entrando in un periodo in cui i partiti di centrosinistra non riescono a formare maggioranze di governo perché hanno perso suffragi in favore di nazionalisti, populisti e di alternative più radicali."
 
 
Il problema della delusione
 
Torniamo adesso all'affermazione di Ilargi secondo cui "Siamo nel bel mezzo del più importante mutamento globale degli ultimi decenni... non mi pare che nessuno ne faccia parola. La cosa mi ha sorpreso", cui Ilargi stesso risponde che in fin dei conti questo silenzio è dovuto a noi stessi, che "pensiamo di meritarla, la crescita a tempo indeterminato."
Ilargi ha ragione a pensare che in qualche modo questo costituisca una risposta alla visione, cara al cristianesimo, del progresso inteso come processo lineare (in questo caso materiale, più che spirituale). Ma in termini più pragmatici, la crescita non è il fondamento di tutto il sistema globale finanziarizzato dell'Occidente? Non è la crescita economica che doveva "liberare gli 'altri' dalla loro condizione di povertà"?
Si ricorderà che Stephen Hadley, ex consigliere per la Sicurezza Nazionale del presidente degli USA George W. Bush, ha detto chiaramente che gli esperti di politica estera dovrebbero prestare molta attenzione al crescente risentimento diffuso, che "la globalizzazione è stata un errore", e che "le élite hanno condotto [gli USA] come dei sonnabuli verso una situazione pericolosa".
Hadley ha affermato che "queste elezioni presidenziali non sono soltanto un referendum su Donald Trump; riguardano i motivi di scontento verso il nostro sistema democratico e il modo in cui intendiamo affrontarli... Chiunque vinca, dovrà affrontare questa situazione."
In poche parole, se la globalizzazione apre la strada allo scontento, la mancanza di crescita economica rischia di minare tutto il progetto finanziarizzato globale. Secondo Stiglitz tutto questo era evidente già da una quindicina d'anni; appena un mese fa ha scritto che già allora aveva individuato "una crescente opposizione, nei paesi in via di sviluppo, verso le riforme favorevoli alla globalizzazione. All'apparenza era un fenomeno strano, perché alla gente dei paesi in via di sviluppo era stato raccontato che la globalizzazione avrebbe fatto aumentare il benessere generale; perché in così tanti si mostravano ostili nei suoi confronti? Come può un fenomeno che a detta dei nostri leader politici e di molti economisti avrebbe fatto vivere tutti meglio incontrare un tale disprezzo? A volte si sente dire da qualche economista neoliberista, paladino di queste politiche, che le persone vivono davvero meglio, solo che non lo sanno. Questo loro scontento è materia per psichiatri, non per economisti."
Ora, questo scontento di nuovo genere a detta di Stiglitz si è esteso anche alle economie avanzate. Forse è a questo che Hadley si riferisce quando afferma che "la globalizzazione è stata un errore." La globalizzazione sta oggi minacciando l'egemonia finanziaria ameriKKKana, e dunque anche la sua egemonia politica.