Traduzione da Strategic Culture, 21 maggio 2018.

La dichiarazione presidenziale dell'otto maggio sull'abbandono dell'accordo sul nucleare iraniano ci impone una ridefinizione del trumpismo.
Quando Trump prese possesso della carica, era ampiamente noto che la sua ideologia si basava su tre pilastri fondamentali: in primo luogo i costi sostenuti dagli USA per mantenere l'apparato bellico imperiale (ovvero la gestione dell'ordine mondiale basato sul predominio ameriKKKano) erano semplicemente troppo onerosi e ingiusti, specie per quanto riguardava il mantenimento dell'ombrello difensivo, per cui altri paesi dovevano essere costretti a condividerne i costi. In secondo luogo, i posti di lavoro ameriKKKani erano stati, per così dire, rubati all'AmeriKKKa, e avrebbero dovuto essere ripristinati tramite cambiamenti forzati negli accordi commerciali. Terzo, a questo si sarebbe arrivati applicando le tattiche dell'Arte del Giungere a un Accordo.
La situazione aveva almeno il pregio della chiarezza, se non quello di costituire un progetto interamente realizzabile. Solo che per lo più pensammo che questa Arte del Giungere a un Accordo altro non contemplasse che minacciare, angariare e vessare la controparte, chiunque essa fosse, facendo alzare la tensione fino a livelli esplosivi per poi offrire "un accordo" all'ultimissimo minuto e nel momento più grave della crisi. All'epoca il punto era proprio questo: Trump avrebbe scagliato bombe verbali per mettere a soqquadro le aspettative correnti, si sarebbe mosso concretamente per forzare gli eventi, ma l'obiettivo, si pensava in genere, era quello di arrivare a un accordo. Un accordo in sintonia con gli interessi mercantili e politici ameriKKKani, ma pur sempre un accordo.
Probabilmente abbiamo mal interpretato l'incremento che Trump ha impresso al già surdimensionato apparato bellico ameriKKKano. Sembrava che si trattasse di farne un potenziale strumento di pressione, un qualcosa che può essere offerto come ombrello difensivo -a paesi che soddisfacevano determinate condizioni- o negato a quanti non avrebbero messo mano alla tasca nella misura desiderabile.
Con la dichiarazione dell'otto maggio tutto è cambiato. Non si è dibattuta solo l'uscita degli USA da un accordo; si è dichiarata contro l'Iran una guerra finanziaria senza quartiere, con termini di resa definiti come rovesciamento del governo e totale sottomissione agli USA. Solo che tutto questo non è più finalizzato al raggiungimento di un accordo migliore, più favorevole agli USA, o al renderlo più remunerativo. Si tratta di usare il sistema finanziario come strumento per distruggere la moneta e l'economia di un altro paese. L'apparato militare statunitense è stato ulteriormente enfiato per essere usato, perché sia in grado di rovesciare fuoco e fiamme sui paesi che non si mostrano condiscendenti.
Nahum Barnea, un editorialista di primo piano nello stato sionista, scrivendo nel quotidiano in lingua ebraica Yediot Ahronot esprime in termini stringati il piano: "Le aspirazioni nel lungo periodo dello stato sionista hanno un obiettivo ambizioso: portare l'Iran al collasso economico grazie alle sanzioni ameriKKKane. Il collasso economico porterà al rovesciamento del governo. Il nuovo governo abbandonerà l'opzione nucleare e i piani per espandersi in tutta la regione. Gli stessi fattori che hanno causato il crollo dell'Unione Sovietica alla fine degli anni Ottanta del secolo scorso causeranno il crollo della repubblica islamica. Il Presidente Reagan lo fece con i sovietici; il Presidente Trump lo farà con gli iraniani. Trump si è innamorato di questa idea."
L'adozione dell'idea di rovesciare il governo iraniano, la "concessione" unilaterale di Gerusalemme allo stato sionista e il benestare statunitense per attacchi contro le truppe e le infrastrutture iraniane in Siria in qualunque località e in qualunque tempo costituiscono l'assoluta antitesi di un approccio basato sull'Arte di Giungere a un Accordo. Sono invece il modo di far crollare davvero, e in senso materiale, il Medio Oriente come esso è oggi, per mezzo della forza finanziaria e militare. Un altro utopistico progetto occidentale in cui si intende eliminare i difetti (per esempio questi "Ayatollah" che si oppongono perversamente all'AmeriKKKa e alla sua missione di civiltà) che l'elemento umano introdurrebbe in un mondo altrimenti perfetto, ricorrendo alla forza o all'eliminazione fisica.
Il politologo statunitense Russell-Mead pensa che l'otto maggio il trumpismo abbia attraversato una metamorfosi e abbia cambiato rotta, dirigendosi verso un'"epoca neoameriKKKana nella politica mondiale, piuttosto che verso un'epoca postameriKKKana [com'era quella di Obama]" (le iniziative di Trump sembrano molto spesso radicalmente ispirate dalla repulsione per Obama).
Insomma, "l'amministrazione vuole ampliare il potere ameriKKKano piuttosto che limitarsi a governarne il declino. Almeno per adesso, il Medio Oriente è il perno di questa posizione nuovamente assertiva", afferma Russell-Mead, spiegando come nasce il nuovo atteggiamento di Trump:
L'istinto dice [a Trump] che la maggior parte degli ameriKKKani sono tutt'altro che ansiosi di vedere un mondo "postameriKKKano". I sostenitori del signor Trump non vogliono lunghe guerre, ma non sono intendono neppure rassegnarsi alla stoica accettazione del declino del proprio paese. Per quanto riguarda l'atteggiamento nei confronti dell'Iran, Trump pensa che rafforzare l'Iran significhi più probabilmente rafforzare i sostenitori della linea dura piuttosto che i moderati. Come disse una volta Franklin Roosevelt in uno dei discorsi al caminetto, "Non c'è uomo che possa trasformare una tigre in un gattino a forza di carezze."
L'amministrazione Trump è convinta che anziché costringere gli USA alla ritirata, l'arroganza con cui l'Iran si è allargato in Medio Oriente rappresenti in realtà un'occasione d'oro per ribadire la potenza ameriKKKana. Spera che l'alleanza in via di consolidamento fra paesi arabi e stato sionista fornirà all'AmeriKKKa alleati nella zona pronti a sobbarcarsi la maggior parte dei rischi e dei costi di una politica antiiraniana, in cambio del sostegno degli USA. Il potenziale aereo dello stato sionista e gli eserciti arabi, uniti alle reti di servizi e alle relazioni locali che i nuovi alleati portano in dote, possono mettere l'Iran sulla difensiva in Siria e altrove. Questa pressione militare, unita alla pressione economica che deriva da una nuova ondata di sanzioni, indebolirà la presa che l'Iran ha sui suoi alleati di prossimità e creerà problemi politici ai mullah in patria. Se essi risponderanno facendo ripartire il programma nucleare, i raid aerei sionisti e ameriKKKani potrebbero sia fermare questi sviluppi, sia infliggere al prestigio della Repubblica Islamica una batosta umiliante.
A quel punto, sono convinti quelli di Trump, l'Iran dovrà affrontare un negoziato ben diverso; un negoziato in cui gli USA e i loro alleati si trovano in una posizione di forza. Oltre ad accettare limiti alle proprie attività in campo nucleare, sperano gli ottimisti, l'Iran rinuncerà anche alle proprie ambizioni sul Medio Oriente. Il futuro della Siria sarà deciso dagli arabi, e l'Iran accetterà che l'Iraq si comporti da stato cuscinetto neutrale fra le sue frontiere e il mondo arabo sunnita; una pace precaria finirà così per prevalere.
Davvero una bella utopia, Trump che risistema il Medio Oriente. Che cosa potrebbe mai andare storto?
Russell-Mead non lo dice esplicitamente, perché preferisce usare il vocabolo neoameriKKKano, ma quello che ci troviamo davanti non è che un miscuglio del trumpismo prima maniera col neoconservatorismo puro e semplice. O con quello che potremmo definire netanyahuismo. Certo, il classico approccio alla Trump che consiste nel prendere decisioni a effetto, di quelle lì per lì gradite alla base ma che spesso sembrano mancare di una visione strategica approfondita o di considerazione per i rischi nel più lungo periodo, è sempre presente; solo che l'"accordo" cui si puntava prima è stato sostituito dalla ricerca della sottomissione completa. Da quello che Russell-Mead chiama "ampliamento del potere ameriKKKano".
La cerimonia di passaggio dell'ambasciata statunitense a Gerusalemme riflette esattamente questa perdurante campagna di decisioni ad effetto che sono poi una sua caratteristica essenziale. Dapprincipio infatti Trump aveva respinto le pressioni repubblicane favorevoli al trasferimento dell'ambasciata (come riportato da Haaretz), ma come sottolineato anche dal quotidiano sionista il suo atteggiamento all'inizio del mese era completamente cambiato: "La cerimonia di apertura della nuova ambasciata USA a Gerusalemme era sostanzialmente un evento ad invito della campagna di Trump":
 
I partecipanti previsti avevano tutti giurato lealtà al presidente e appartenevano a uno dei gruppi che lo aveva salutato come un nuovo Ciro il Grande: ebrei ortodossi, sionisti di destra (compreso il Primo Ministro Benjamin Netanyahu) e appartenenti alla sua base nel Partito Repubblicano, provenienti soprattutto dalla comunità evangelica.
Tutto questo era in bella evidenza fin dalla cerimonia di benedizione inaugurale tenuta dal pastore della enorme chiesa battista texana, il dottor Robert Jeffress. Gli occhi stretti in preghiera, ha ringraziato Dio per 'il nostro grande Presidente Donald Trump', ha lodato il modo in cui Israele "ha benedetto questo mondo indicandoci la tua persona, l'unico vero Dio, con i messaggi dei suoi profeti, con le sue scritture e con il Messia" e ha pregato per Gerusalemme "£in nome dello spirito del Principe della Pace, Gesù nostro signore."
Per Netanyahu un'ubriacatura di successo. Ben Caspit, nel quotidiano sionista Maariv, ha descritto in lingua ebraica le condizioni di Netanyahu: "è quella che chiamano euforia". I neoconservatori sono in piena azione: Eli Lake del Bloomberg fa collegamenti fra la dichiarazione sull'Iran e la condotta dei negoziati commerciali con la Cina. In un articolo intitolato "Trump capitola alla cinese ZTE e indebolisce la sua strategia contro l'Iran". Lake cita uno di coloro che hanno messo a punto le stringenti sanzioni contro l'Iran, Richard Goldberg, notando che "Se si comincia a barattare un allentamento delle sanzioni in cambio di migliori condizioni commerciali, il potere di deterrenza delle sanzioni ameriKKKane [contro l'Iran] si attenua molto velocemente."
Lake aggiunge che il suo collega David Fickling ha sottolineato qualcosa di simile nel suo editoriale, quando ha osservato che il passo indietro di Trump con la ZTE costituisce precedente di un pericoloso azzardo morale. "Qualunque governo abbia una disputa con Washington adesso sa che c'è solo bisogno di minacciare la base elettorale di Trump per averla vinta," ha scritto Fickling, intendendo in concreto che una volta che si imbocca il sentiero neoconservatore della guerra finanziaria puntellata con le armi occorre mantenere una linea in cui non si ha rispetto per nessuno, anche in negoziati abbastanza a se stanti come quello commerciale con la Cina.
Esatto. Neoconservatori come John Bolton rifuggono tradizionalmente dal negoziato e dalla diplomazia, e preferiscono invece il potere puro e semplice e l'applicazione di pressione a danno della controparte per costringerla a fare concessioni o a sottomettersi. Il fatto è che mentre la dichiarazione dell'otto maggio era diretta esplicitamente contro l'Iran, le sue conseguenze si espandono in tutto lo spettro della politica estera. Se venire incontro alla Cina per quanto riguarda la ZTE (un fabbricante cinese di smartphone e di semiconduttori) "indebolisce la strategia contro l'Iran", allora qualunque esenzione o qualunque allentamento delle sanzioni nei confronti delle società europee che hanno investito in Iran andrà a indebolire questa strategia in modo anche più diretto. Anche una qualsiasi concessione fatta alla Russia finisce per influire su di essa. Insomma, si tratta di una strategia del tipo "tutto o nulla" altamente sensibile al contagio.
C'è poi l'incontro con la Corea del Nord. Un funzionario europeo ha detto a Laura Rozen, cronista basata a Washington, che l'amministrazione Trump è sicura di avere la possibilità di arrivare ad un accordo sul nucleare con la Corea del Nord perché è arrivata al massimo la campagna di pressioni organizzata contro di essa. "Lo chiamano lo scenario Corea del Nord," ha detto il funzionario europeo. "Si schiacciano i nordcoreani, si schiacciano gli iraniani... e faranno quello che ha fatto Kim Jong Un: si arrenderanno".
Solo che la squadra di Trump, se davvero crede che siano state le sanzioni a costringere Kim Jong Un a chiedere un incontro a Trump, può aver mal interpretato la situazione.
Kim Jong Un in realtà ha esplicitamente avvertito il Segretario di Stato Pompeo, nel corso del loro incontro, che il motivo per cui chiedeva un inconto era che "abbiamo perfezionato la nostra capacità nucleare", vale a dire che la Corea del Nord, come potenza nucleare vera e propria, sente adesso di avere il potere necessario per costringere gli ameriKKKani a lasciare la penisola e a portarsi via anche le loro minacce e i loro missili. Su questo punto Kim Jong Un ha il sostegno della Corea del Sud, anche se è dubbio che esso sia tanto convinto da poter reggere le minacce di Washington; di qui la rabbia di Jong Un per la ripresa delle esercitazioni militari sudcoreane con gli USA, contrarie ai precedenti abboccamenti. L'avvertimento ricevuto da Pompeo è stato ampiamente ignorato a Washington, ma nondimeno "questo [incontro programmato] non è il risultato di sanzioni imposte dall'esterno".
In un certo senso adesso Trump ha bisogno di questo incontro, e di una rapida "vittoria" che arrivi in tempo per le elezioni di metà mandato. Ne ha più bisogno di quanto serva a Kim Jong Un. Il leader nordcoreano ha già avuto il suo successo dimostrando a Pechino, a Mosca e a Seoul che sta seriamente cercando di arrivare a una Corea nucleare, smilitarizzata e unificata (che sono le richieste fattegli dalla Cina) e che il problema non è lui, ma le richieste senza compromessi avanzate da Washington. Insomma, l'incontro serve alla Corea del Nord per migliorare le relazioni con la Cina e con la Russia e per continuare con le aperture verso la corea del Sud. Non segna certo la fine di Kim Jong Un.
In ogni caso vedremo come andrà a finire. Nascono però due interrogativi conseguenti: ora che Trump ha abbracciato quello che per Russell-Mead è il neoameriKKKanismo, quale strategia adotteranno gli USA se la Corea del Nord e l'Iran rifiuteranno di dare segno di sottomissione? Il passo successivo è l'attacco militare? In secondo luogo, è verosimile che questa strategia funzioni? Dovremo aspettare e vedere. Solo che a questo proposito c'è un dato di fatto importante: non siamo nel 2012, l'anno in cui gli USA imposero le sanzioni all'Iran, ma nel 2018, e molte cose sono cambiate.
Trump può anche credersi l'equivalente contemporaneo di un Cesare Borgia del sedicesimo secolo, con Bolton che gli fa da Machiavelli e Mattis da Leonardo che costruisce macchine belliche, fa assassinare i nemici e mette sotto assedio le città stato che non intendono sottomettersi. Il fatto è che Cina, Russia e Iran non sono città stato che è possibile assediare a capriccio e senza subire conseguenze. La base elettorale di Trump dirige il proprio disgusto sulla palude di Washington e sulle tasse cavasangue volute dalla sua élite politica e aziendale e chiede a gran voce che la palude sia bonificata; anche Cina, Russia e Iran vogliono che sia bonificata la palude che si chiama "ordine mondiale" e che venga loro restituita la sovranità.
Cina, Russia e Iran sanno benissimo che dovranno affrontare una guerra finanziaria per il loro rifiuto di collaborare. Capiscono, come Putin ha sottolineato ancora una volta anche questo mese, che il monopolio del dollaro ameriKKKano costituisce il centro della palude dell'ordine mondiale. E sanno che alla fine solo un'azione collettiva potrà bonificarla. Chissà, anche l'Europa alla fine potrebbe unirsi al fronte di coloro che non collaborano per protestare contro le sanzioni che gli USA hanno imposto.