Traduzione da Strategic Culture, 6 maggio 2019.
La rottura tra Turchia e paesi del Golfo -quelli con alle spalle gli USA e lo stato sionista- è entrata in fase acuta. Erdogan è sempre più sotto pressione; è un attaccabrighe ed è probabile che reagirà menando le mani. L'Iran, come la Turchia, è sottoposto a un attacco a tutto campo da parte del Tesoro statunitense. Probabilmente anche l'Iran in un modo o nell'altro reagirà contro quanti hanno esortato il Presidente Trump e i suoi falchi a scendere sul sentiero di guerra. Iran e Turchia sanno con chi rifarsela, sanno chi ha soffiato sul fuoco: Muhammad bin Zayed e il suo compare Muhammad bin Salman. Il teatro in cui si dispiegherà questo acuirsi delle tensioni sarà verosimilmente quello del nord Africa e del corno d'Africa.
Questa rottura va a sommarsi alle altre che già frammentano il Medio Oriente. Le tensioni si sono fatte molto serie. Il linguaggio bellicoso di Trump sivene spesso inteso come una fanfaronata calcolata, il cui scopo è quello di partire da una posizione di favore in vista di qualche negoziato. Ma quello che forse il Presidente non aveva previsto è che il suo fare bellicoso si sarebbe diffuso ovunque nei think tank di Washington e degli ambienti governativi. Qualunque carrierista in cerca di una promozione o di un posto nell'esecutivo ora cerca di imitare, magari su Fox News, quel pistolero di Bolton e la sua retorica a muso duro.
Il fatto è che Trump viene dall'immobiliare e la sua esperienza contempla esplicitamente il cambiare repentinamente atteggiamento, quando serve. E Trump lo fa, come lo faceva in affari: le virate di centoottanta gradi non sono un problema, per lui. Ma per la sua squadra? La cosa non è altrettanto chiara. Magari qualcuno potrebbe anche vedere la retorica bellicosa di Trump come lo strumento necessario per mettere il Presidente sulla via di una convergenza sempre più serrata, giunti alla quale le virate non sono più un'opzione praticabile.
Le pressioni statunitensi su Erdogan sono veramente forti: di sicuro ci sono le sanzioni, ma ci sono anche i reiterati inviti da parte delle principali banche di Wall Street affinché si abbrevi l'agonia della lira turca; la promessa di ulteriori punizioni statunitensi (il Tesoro che gli fa la guerra ancora di più) nel caso la Turchia dovesse ricevere dalla Russia i missili antiaerei S400. Infine, proprio ora, il ritiro dei "capitolati di esenzione" statunitensi sul greggio leggero che la Turchia importa dall'Iran e che è quello che serve a far funzionare le raffinerie turche. In altre parole, la produzione turca è calibrata sul greggio leggero iraniano e una riorganizzazione industriale sarebbe costosa.
Poi ci sono le pressioni strategiche. Tra queste, l'intento dichiarato di Trump di mettere i Fratelli Musulmani nella lista delle organizzazioni terroristiche. A Washington la faccenda è ancora in fase di definizione, ma in genere si pensa che finirà in questo modo.
E allora? Allora lo AKP corrisponde informalmente ai Fratelli Musulmani, almeno per quanto riguarda una delle sue componenti più importanti; Erdogan è culturalmente dei Fratelli Musulmani e si considera un loro protettore; lo AKP agevola il finanziamento delle organizzazioni sociali dei Fratelli Musulmani che operano in Turchia con donazioni erogate dal comune di Istanbul. Gli editorialisti turchi accusano senza mezzi termini certi paesi del Golfo di aver messo la lista di proscrizione sotto gli occhi di Trump, e hanno ragione. E non si tratta di una questione banale.
Poi ci sono i curdi in Siria, che gli USA si dicono intenzionati ad armare con missili superficie aria Stinger. Davvero? Lo Stato Islamico di questi tempi usa gli elicotteri? E c'è una dichiarazione recente di un funzionario del Dipartimento di Stato secondo cui gli USA occuperanno un terzo del territorio siriano, quello più ad est, per "molto tempo" e vi faranno investimenti, vale a dire armeranno i curdi ancora di più. L'inviato statunitense James Jeffry sta spingendo perché Erdogan accetti la presenza di una guardia di frontiera curda armata dislocata al confine meridionale della Turchia con la Siria, e incaricata del suo controllo.
Ovviamente nelle conventicole che circondano Erdogan si capisce che il cappio si sta stringendo al collo della Turchia; questo "progetto" con i curdi viene inteso come nient'altro che un "punto di appoggio" per penetrare in Turchia e indebolirla. Per i vertici dello stato turco si tratta di una cospirazione alla luce del sole il cui scopo resta quello di indebolire il paese.
Infine, tra le iniziative del fronte antiturco con sede nel Golfo troviamo il rovesciamento del governo sudanese cui era a capo un presidente collegato ai Fratelli Musulmani, la probabile cacciata della Turchia dalla base navale che possiede in Sudan dirimpetto a Gedda e, per ultimo ma non ultimo, l'assalto del generale Haftar contro Tripoli e Misurata, che sono difese da forze sostenute dalla Turchia e dal Qatar. Una percentuale significativa della popolazione nella Libia settentrionale è etnicamente turca.
Così, come riferisce in arabo Abdel Bari Atwan sul Rai al-Youm, "lo sviluppo più importante nel contesto libico è dato dal fatto che il presidente turco si è fatto avanti [con una] teledonata al signor Al-Sarraj: [Erdogan] impegnerà tutti i mezzi di cui il suo paese dispone per impedire che quella che ha definito 'la cospirazione' colpisca il popolo libico. Ha sottolineato l'importanza che Al-Sarraj e il suo governo hanno nella difesa di Tripoli. Secondo noi questo significa sostegno anche militare, non solo politico", conclude Bari Atwan.
Insomma, Erdogan -alleato con il Qatar- sta scendendo in campo contro gli Emirati Arabi Uniti e contro le forze di Haftar, sostenute dall'Arabia Saudita e dagli USA e a favore del governo di accordo nazionale sostenuto dall'ONU e dallo stato che occupa la penisola italiana.
L'attacco di Haftar si è già impantanato nei sobborghi di Tripoli. Sembra poco probabile adesso che il Qatar o la Turchia acconsentiranno al colpo di stato messo su dagli Emirati e dall'Arabia Saudita senza un confronto sanguinoso. Al momento il governo di accordo nazionale, tramite la banca centrale, controlla le entrate petrolifere anche se i giacimenti sono materialmente in mano a Haftar. Haftar potrebbe rovesciare questa situazione e tenere per sé le rendite petrolifere. La banca centrale che controlla l'accesso a questi fondi, depositati in un conto di garanzia a New York, si trova a Tripoli.
Il fatto è che se la Turchia è sottoposta a pressioni forti sia sul piano interno (la sua economia è fragile, e poi il nuovo sindaco di Istanbul sta mettendo in discussione i fondamenti stessi della politica dello AKP) sia sul piano della politica estera, anche i paesi del Golfo lo sono, anche se si tratta di pressioni di natura differente.
Intanto, la guerra nello Yemen non sta andando bene per l'Arabia Saudita. Sembra che il fronte meridionale saudita si stia disintegrando malamente e che le forze yemenite stiano spingendosi nel sud dell'Arabia Saudita. Poi, il tentativo dei paesi del Golfo di instaurare regimi militari di sicurezza in Sudan, in Algeria e in Libia non è garantito da nessun punto di vista. Il rischio è che l'instabilità causata da questi tentativi di colpo di stato si diffonda a macchia d'olio in tutto il nord Africa. Nel Ciad si vive in ansia perché Haftar vi ha tentato un colpo di stato alcuni anni fa; la Mauritania pensa che gli Emirati Arabi Uniti abbiano messo gli occhi sulle sue risorse, e il Marocco è ai ferri corti con gli Emirati Arabi Uniti a causa del suo essersi rivolto al Qatar. Il risultato finale di questa tripletta di colpi di stato è in bilico.
E questo ci riporta al quadro generale. Trump è deciso a riplasmare il Medio Oriente. Kushner e gli altri inviati non ne fanno mistero: il loro obiettivo è quello di rimodellare la regione a piacimento dello stato sionista. Lo stato sionista diventerà "grande Israele" sottomettendo qualcosa come sei milioni e mezzo di palestinesi; per facilitare questo piano tre nazioni storiche -i pilastri dell'ordinamento regionale- devono subire un ridimensionamento: la Grande Siria sarà un po' meno grande senza un terzo di un territorio che è già ridotto; Iran e Turchia vanno arginati, indeboliti e i loro attuali governi se possibile rovesciati affinché lascino il posto a compagini più condiscendenti.
Una iniziativa ambiziosa ma non esente da evidenti difetti. Il primo lo indica una fonte ben informata in materia di sanzioni: David Cohen, ex sottosegretario al Tesoro statunitense con competenze sul terrorismo e lo spionaggio finanziario. Insomma, le sanzioni fatte persona:
Negli ultimi decenni... le sanzioni sono diventate uno strumento fondamentale nella politica estera statunitense. L'amministrazione Trump ha fatto un utilizzo particolarmente pesante di questo strumento, spcialmente negli sforzi compiuti per rovesciare il governo in Venezuela e in Iran... E anche se l'amministrazione è stata più vaga nel suo invocare il rovesciamento della forma di governo religioso in Iran, le richieste che essa ha posto a Tehran sono talmente onerose che, come ha sostenuto l'ex ambasciatore statunitense Robert Blackwill, "è di fatto impossibile per l'Iran ottemperarvi senza un mutamento sostanziale ai vertici dello stato e nella forma di governo". Il Presidente degli Stati Uniti Donald Trump, in altre parole, "vuole in Iran un rovesciamento del governo, ma non lo indica in questi termini"."Solo che perché le sanzioni funzionino... devono puntare a un comportamento che il soggetto colpito sia in grado di cambiare, per quanto obtorto collo. La parte colpita deve anche credere che le sanzioni verranno meno, se essa abbanbdona il comportamento di cui sopra.La logica delle sanzioni costrittive non funziona invece quando il loro obiettivo è quello di rovesciare un governo. Questo, semplicemente perché il costo di lasciare il potere sarà sempre più alto del beneficio ricavabile dalla fine delle sanzioni; uno stato sanzionato non può verosimilmente permettersi di acconsentire al rovesciamento del proprio governo...Ci sono poche ragioni per aspettarsi che oggi in Venezuela o in Iran il risultato sarà diverso. Le sanzioni imposte unilateralmente dagli USA stanno imponendo pedaggi onerosi, ma non si deve pensare che il loro impatto economico sia indice di un successo politico, specialmente se il loro obiettivo è quello di rovesciare un governo.
Un altro esperto, il colonnello degli Stati Uniti Pat Lang, nota che gli ultimi pasticciati tentativi di mettere in piedi un'insurrezione dei militari venezuelani per cacciare il Presidente Maduro sono stati per molti versi una cialtronata paragonabile allo sbarco nella Baia dei Porci a Cuba nel 1961, che si fondava sull'errata convinzione che anche il popolo cubano sarebbe insorto fornendole immediato appoggio.
Gli eventi in Venezuela sottolineano come la retorica machista degli USA sia spesso più chiacchiere che sostanza: insomma, l'idea di sé che ogni macho ha è inversamente proporzionale alle sue oggettive prestazioni in quel settore. Ovviamente in Medio Oriente è una cosa che hanno notato tutti.
Insomma, se le sanzioni non avranno successo, e gli USA cercheranno verosimilmente di abborracciare un colpo di stato sotto copertura stile Maidan in Iran o in Russia, non c'è nulla da temere?
Non è del tutto vero. Perché se anche il tentativo di fare dello "avamposto dell'Occidente" in Medio Oriente la forza predominante complicherà le cose nella regione, che gli USA ci mettano o no il becco, la questione è differente: la montante retorica bellicista degli USA che ne riempie la politica ufficiale non si esaurisce con le chiacchiere. Essas fa riferimento alle "guerre perenni" dell'AmeriKKKa: l'infinita guerra generazionale -secondo la dottrina prevalente- contro la Russia e l'Iran. Il linguaggio che indica l'Iran e il Presidente Putin come il Male assoluto è deliberato e fa parte di un progressivo troncamento di ogni canale di comunicazione e di cointeressenza tra l'Occidente da una parte e la Russia e l'Iran dall'altra: il pubblico statunitense non è ancora abituato a considerare come il Male anche il popolo cinese.
Passo dopo passo i canali dedicati alla comunicazione reciproca sono stati fatti atrofizzare. Le aree di collaborazione costruite con il lavoro di anni vengono cancellate; la reciproca comprensione in materia di armamenti e di sicurezza cui si è dolorosamente arrivati viene messa da parte. E si statuisce invece che non c'è nessuno con cui parlare, perché gli altri sono per natura infidi, mendaci e traditori.
Ovviamente chi pensa che il linguaggio bellicoso ostentato da Bolton e da Pompea serva semplicemente come strategia negoziale è padronissimo di rimanere della propria opinione; altri tuttavia potrebbero vedervi la metodica edificazione di una galleria sempre più stretta e con un unico sbocco, che è la perenne escalation contro la "malvagità".
La questione autentica è: Trump vede tutto questo? Ne è consapevole? O si è convinto che le fanfaronate della sua amministrazione sono davvero vincenti facendo nuovamente grande l'AmeriKKKa? Il futuro di tutti dipende da questo.