Donald Trump dazi tariffe 2025

Traduzione da Strategic Culture, 16 aprile 2025.

Lo shock inflitto da Trump –il suo sottrarre l'AmeriKKKa al ruolo di perno dell'ordine postbellico basato sul dollaro– ha aperto una profonda spaccatura tra coloro che hanno tratto enormi benefici dallo status quo da un lato, e la fazione del Make AmeriKKKa Great Again che era arrivata a considerare lo status quo come un nemico -se non come una minaccia esistenziale- per gli interessi degli Stati Uniti dall'altro. Le due parti sono contrapposte da un'aspra polarizzazione irta di accuse reciproche.
Uno dei dati ironici della situazione è il fatto che il Presidente Trump e i repubblicani di destra abbiano insistito nel denunciare come una dannazione la vantaggiosa posizione del dollaro come valuta di riserva, che ha deviato proprio verso gli Stati Uniti il flusso dei risparmi del mondo che ha permesso loro di godere del privilegio unico di stampare moneta senza conseguenze negative. Almeno fino ad ora. Perché a quanto pare le dimensioni dell'indebitamento iniziano a farsi sentire anche per il Leviatano.
Il vicepresidente Vance adesso paragona la valuta di riserva a un "parassita" che ha corroso la sostanza del suo "ospite" –l'economia statunitense– con l'imposizione della sopravvalutazione del dollaro.
Per essere chiari, il presidente Trump riteneva che non ci fosse scelta: o si rovesciava il paradigma esistente al prezzo di notevoli sacrifici per molti di coloro che dipendono dal sistema finanziario, oppure si lasciava che gli eventi seguissero il loro corso verso l'inevitabile collasso economico degli Stati Uniti. Anche coloro che comprendevano il dilemma degli Stati Uniti sono rimasti comunque piuttosto scioccati dallo sfacciato egoismo con cui Trump ha deciso di "imporre dazi al mondo".
Al contrario di quello che molti affermano, le iniziative di Trump non sono dei capricci o dei gesti impulsivi. Sulle tariffe doganali il suo entourage ha lavorato per anni, e la loro imposizione costituiva parte integrante di un quadro più complesso che integrava gli effetti dei dazi sulla riduzione del debito e sulle entrate con un programma volto a costringere un'industria manifatturiera ormai scomparsa a tornare negli Stati Uniti.
Quella di Trump è una scommessa; potrebbe riuscire oppure no. Rischia una crisi finanziaria ancora più grave, dato che i mercati finanziari sono sovraindebitati e fragili. Ma ciò che è chiaro è che alle sue rozze minacce e al suo umiliare i leader mondiali seguirà una perdita di centralità degli USA che finirà per provocare una reazione nociva sia nelle relazioni con gli altri Paesi sia nella loro disponibilità a continuare ad avere a che fare con attività statunitensi, come i titoli del Tesoro. La sfida della Cina a Trump conferirà all'atmosfera un tono cui si adeguerà anche chi non ha il peso della Cina.
Perché allora Trump dovrebbe correre un rischio del genere? Perché, dietro le azioni audaci di Trump, osserva Simplicius, si nasconde una dura realtà che molti sostenitori del MAGA devono affrontare:
Rimane indiscutibile che la forza lavoro statunitense è stata devastata dalla tripla minaccia dell'immigrazione di massa, dall'anomia generale dei lavoratori come conseguenza del decadimento culturale e, in particolare, dall'alienazione di massa e dalla privazione dei diritti civili degli uomini di orientamento conservatore. Questi sono stati fattori che hanno fortemente contribuito all'attuale crisi di fiducia nella capacità dell'industria manifatturiera statunitense di tornare ai fasti del passato, indipendentemente dall'entità dei tagli che Trump deciderà di infliggere a un "ordine mondiale" ormai in crisi.
Trump sta scatenando una rivoluzione per ribaltare questa realtà. La sua speranza è che ponendo fine all'anomia riporterà l'industria negli Stati Uniti.
Esiste una corrente nell'opinione pubblica occidentale –"non limitata affatto agli intellettuali", né ai soli statunitensi– che dispera della "mancanza di volontà" del proprio Paese, o della sua incapacità di fare ciò che è necessario, della sua inettitudine e della sua "crisi di competenza". Questa gente desidera ardentemente una leadership a suo giudizio più dura e più determinata, bramosa di potere illimitato e spietato.
Un sostenitore di Trump di alto rango esprime il concetto in modo piuttosto brutale: "Siamo ora a un punto di svolta molto importante. Se vogliamo affrontare di brutto la Cina non possiamo tollerare incrinature sul fronte interno... È ora di diventare cattivi, brutalmente, duramente cattivi. Le delicatezze sensibili devono essere spazzate via come piume in un uragano".
Non sorprende che in un Occidente dominato da un generico nichilismo possa prendere piede una mentalità che ammira il potere e soluzioni tecnocratiche animate da una quasi compiaciuta spietatezza.
Prendete nota: ci aspetta un futuro turbolento.
A complicare ancora di più il quadro del disfacimento economico dell'Occidente arriva la contraddittorietà delle dichiarazioni di Trump. Potrebbero anche essere parte del suo repertorio, ma la loro casualità fa pensare che nulla sia affidabile e nulla sia costante.
Secondo alcune fonti interne alla Casa Bianca, Trump avrebbe perso ogni inibizione quando si tratta di agire con audacia: "È all'apice del non fregarsene più di niente", ha dichiarato al Washington Post un funzionario della Casa Bianca che conosce bene il modo di pensare di Trump:
Cattive notizie? Non gliene frega un cazzo. Farà quello che deve fare. Farà quello che ha promesso durante la campagna elettorale.
Quando una parte della popolazione di un Paese deplora la "mancanza di volontà" o l'incapacità del proprio Paese di "fare quello che va fatto", sostiene lo Aurelien, essa inizia di tanto in tanto a identificarsi emotivamente con "un altro Paese", ritenuto più forte e più deciso. In questo particolare momento, "il manto" che toccherebbe a "una sorta di supereroe nietzscheano al di là di considerazioni sul bene e sul male"... "è caduto sullo stato sionista" - almeno per una rilevante quota di politici statunitensi ed europei. Aurelien continua:
Nello stato sionista troviamo una società apparentemente occidentale insieme a una linea comportamentale spregiudicata, spietata e improntata a un totale disprezzo per il diritto internazionale e per la vita umana; molti lo trovavano esaltante ed è diventato un modello da emulare. Il sostegno occidentale allo stato sionista su Gaza acquista molto più senso quando ci si rende conto che i politici occidentali e parte della classe intellettuale provano una segreta ammirazione per la spietatezza e la brutalità dello stato sionista in guerra.
La "svolta" imposta dagli Stati Uniti, nonostante i costosi sconvolgimenti che impone, rappresenta anche un'enorme opportunità: quella di passare a un paradigma sociale alternativo che vada oltre il dominio della sfera finanziaria imposta dal neoliberismo. Questa prospettiva, fino ad oggi, è stata negata dall'insistenza con cui le élite hanno ripetuto che "non ci sono alternative". Adesso si è aperto uno spiraglio.
Karl Polanyi nel suo La grande trasformazione pubblicato circa ottant'anni fa sosteneva che le enormi trasformazioni economiche e sociali a cui aveva assistito durante la sua vita –la fine del secolo di "pace relativa" in Europa dal 1815 al 1914 e la successiva caduta nel caos economico, nel fascismo e nella guerra, ancora in corso al momento della pubblicazione del libro– avevano un'unica causa generale.
Prima del XIX secolo, sosteneva Polanyi, nel "modo di essere" dell'uomo l'economia era una componente organica della società e di essa era sempre stata "parte integrante", subordinata alla politica locale, ai costumi, alla religione e alle relazioni sociali, ovvero subordinata a una cultura civilizzatrice. La vita non era considerata una cosa separata, non era ridotta a particolari distinti, ma era vista come parte di un tutto organico che era la Vita stessa.
Il nichilismo postmoderno è sfociato nel neoliberismo sfrenato degli anni '80 e ha capovolto questa logica. In quanto tale, ha costituito una rottura ontologica con gran parte della storia. Non solo ha separato artificialmente l'"economico" dal "modo di essere" politico ed etico, ma l'economia aperta e liberista (nella sua formulazione di Adam Smith) ha richiesto la subordinazione della società alla logica astratta di un mercato in grado di autoregolarsi. Per Polanyi, questo "significava nientemeno che il funzionamento della comunità come appendice del mercato" e come nient'altro.
La sua proposta –chiaramente– era quella di riportare la società al ruolo dominante in una comunità squisitamente umana, ovvero darle un senso attraverso una cultura viva. In questo senso, Polanyi sottolineava anche il carattere territoriale della sovranità: lo Stato-nazione come condizione sovrana per l'esercizio della politica democratica.
Polanyi avrebbe sostenuto che, in assenza di un ritorno alla Vita stessa come perno centrale della politica, una reazione violenta sarebbe stata inevitabile. È forse questa la reazione cui stiamo assistendo oggi?
In una conferenza davanti a un pubblico di industriali e di imprenditori russi il 18 marzo 2025, Putin ha fatto riferimento proprio a una soluzione alternativa per la Russia, quella della "economia nazionale". Putin ha sottolineato sia l'assedio che è stato imposto allo Stato russo sia la risposta russa, un modello che probabilmente sarà adottato da gran parte del mondo.
Si tratta di un modo di concepire l'economia già praticato dalla Cina, che aveva giocato d'anticipo sull'offensiva tariffaria di Trump.
Il discorso di Putin –in senso metaforico– costituisce la controparte finanziaria del discorso che tenne al Forum sulla sicurezza di Monaco del 2007, in cui aveva accettato la sfida militare lanciata dalla "NATO collettiva". Il mese scorso tuttavia Putin è andato oltre, affermando chiaramente che la Russia aveva accettato la sfida lanciata dall'ordine finanziario anglosassone dell'"economia aperta".
Il discorso di Putin non conteneva elementi nuovi in senso stretto: sanciva il passaggio dal modello della "economia aperta" a quello della "economia nazionale". La "scuola dell'economia nazionale" (del XIX secolo) sosteneva che l'analisi di Adam Smith, fortemente incentrata sull'individualismo e il cosmopolitismo, trascurava il ruolo cruciale dell'economia nazionale.
Il risultato di un libero scambio generale non sarebbe stato l'approdo a una repubblica universale, ma al contrario la sottomissione universale delle nazioni meno avanzate alle potenze manifatturiere e commerciali predominanti. I sostenitori di un'economia nazionale contrastarono l'idea dell'economia aperta di Smith sostenendo invece un'economia chiusa che consentisse alle industrie nascenti di crescere e di diventare competitive sulla scena globale.
"Non fatevi illusioni: non esiste nulla al di fuori di questa realtà". Questo l'ammonimento di Putin agli industriali russi riuniti nel marzo 2025. "Mettete da parte le illusioni", ha detto ai delegati: 
Le sanzioni e le restrizioni sono la realtà di oggi, insieme alla una nuova spirale di rivalità economiche già scatenatasi.
Le sanzioni non sono misure temporanee né mirate, ma costituiscono un meccanismo di pressione sistematica e strategica contro la nostra nazione. Indipendentemente dagli sviluppi globali o dai cambiamenti nell'ordine internazionale, i nostri concorrenti cercheranno in permanenza di impastoiare la Russia e di ridurne le capacità economiche e tecnologiche.
Non dovete sperare in una completa libertà di commercio, di transazioni e di trasferimenti di capitali. Non dovete contare sui meccanismi occidentali per proteggere i diritti degli investitori e degli imprenditori... Non sto parlando di sistemi giuridici: semplicemente, essi non esistono! Esistono solo per se stessi! Questo è il trucco. Capite?!
Noi [russi] dobbiamo affrontare le nostre sfide, certamente -ha detto Putin- ma anche gli occidentali devono affrontarne numerose. Il dominio occidentale sta svanendo. Nuovi centri di crescita globale stanno prendendo il centro della scena.
 Queste sfide non sono il problema; sono l'opportunità, ha sostenuto Putin:
daremo priorità alla produzione interna e allo sviluppo delle industrie tecnologiche. Il vecchio modello è finito. La produzione di petrolio e gas sarà semplicemente il complemento di un'economia reale in gran parte interna e autosufficiente, in cui l'energia non sarà più il motore. Siamo aperti agli investimenti occidentali, ma solo alle nostre condizioni, e il piccolo settore "aperto" della nostra economia reale, altrimenti chiusa e autosufficiente, continuerà naturalmente a commerciare con i nostri partner dei BRICS.
La Russia sta tornando al modello dell'economia nazionale, ha lasciato intendere Putin. "In questo modo potremo resistere alle sanzioni e ai dazi". "La Russia è anche in grado di reggere gli incentivi, essendo autosufficiente in termini di energia e materie prime", ha affermato Putin. Un chiaro paradigma economico alternativo, davanti a un ordine mondiale in disgregazione.