La Storia dell'Iran di Farian Sabahi è uscita a metà 2020 ed è un aggiornamento de Il bazar e la moschea di appena due anni prima, reso necessario dal verificarsi di avvenimenti dalle importanti ripercussioni per la storia politica del paese. Gli ultimi tre capitoli del libro sono una esposizione piuttosto dettagliata degli avvenimenti più recenti e si discostano dal rimanente del testo soprattutto per i riferimenti bibliografici alla stretta attualità. L'introduzione accenna all'indispensabilità di un approccio multidisciplinare per la corretta comprensione di una realtà complessa ed enuncia alcuni temi familiari a chi possieda qualche seria nozione sul sentire diffuso e sul passato recente del paese, consentendo di accostarsi al testo dopo la disconferma di molti temi cari alla propaganda occidentale.
Tutto il testo presenta laddove necessarie delle schede di approfondimento su temi specifici (dalla situazione delle minoranze linguistiche e religiose alle questioni di moda e di costume) con i relativi riferimenti bibliografici. In molti capitoli viene trattata qualche tematica legata alla condizione della donna e al contributo dato dalle donne alle vicende del paese.
La storia della Sabahi inizia con un esame delle condizioni del paese all'epoca della dinastia dei Qajar (1795-1925) che si sofferma sul mancato avvio del processo di modernizzazione iniziato in altri paesi mediorientali perché imposto dai militari (come nell'Impero Ottomano) o perché fondato sulla spinta economica (come in Egitto), ma che nella Persia contemporanea non poteva contare su nessuna delle due cose. La monarchia si procurava le risorse necessarie rilasciando concessioni (soprattutto a britannici e russi) per l'organizzazione di banche centrali e lo sfruttamento minerario e stanti le condizioni embrionali della rete dei trasporti alla fine del XIX secolo l'unico settore in ascesa era quello dei tappeti, mentre l'importazione di prodotti manifatturieri dall'estero indeboliva molto l'artigianato locale. L'A. indica come la coesistenza senza conciliazione tra legge sacra e diritto civile, la scolarizzazione molto carente e il clima intellettuale spento abbiano iniziato a trovare dei correttivi sono all'inizio del XX secolo; in pochi anni si formò un ceto di intellettuali laici che nel 1906 avrebbero capeggiato la rivoluzione contro l'assolutismo. L'A. esamina le cause geografiche, sociali, religiose, politiche ed esterne dell'arretratezza del paese soprattutto a confronto con l'Impero Ottomano: territorio amplissimo e difficile da coprire con strade, ferrovie e linee telegrafiche, assenza di minoranze capaci di gestire lo sviluppo economico e commerciale del paese, popolazione sciita (un orientamento dell'Islam più distaccato dalle questioni del mondo) retta da un corpo di religiosi vigile e unito, sovrani abili e intelligenti ma dai comportamenti più tipici di leader nomadi che non di sovrani capaci di centralizzazione. L'A. passa in rassegna le vicende della dinastia Qajar e dei suoi contatti con potenze europee che si comportavano come anfitrioni generosi con la corte persiana ma badavano in sostanza a che la Persia rimanesse uno stato cuscinetto da cui ottenere concessioni petrolifere e minerarie. Proprio la concessione per il tabacco fu oggetto di un boicottaggio da parte dei religiosi sciiti fra il 1890 e il 1892, in una vicenda che per la prima volta mise in discussione i rapporti tra monarchia e religione e vide in azione l'alleanza tra 'ulema e mercanti, in una dinamica destinata a riprodursi costantemente nella storia del paese. Il primo capitolo del volume si chiude accennando a come l'introduzione di un sistema fiscale meno legato all'aleatorità del nomadismo, delle divisioni tribali e della corruttela locale abbia posto a partire dal 1898 le basi per la rivoluzione del 1906.
La rivoluzione costituzionale del 1906 fu l'evento più importante dei primi decenni del XX secolo in Persia. La Sabahi afferma che essa "ebbe come cornice la competizione imperialista tra Russia e Gran Bretagna, come obiettivo il potere arbitrario del sovrano ma non la sua rimozione, come teatro la capitale Teheran". La causa fu "l'ingiustizia pervasiva dl governo", sostanzialmente in materia di politica fiscale, e l'esito fu che essa "culminò nella concessione da parte dello scià di una Costituzione scritta"; le idee occidentali insinuatesi nel paese dalla fine del XIX secolo erano arrivate a rompere gli antichi equilibri che regolavano la coesistenza della monarchia con il potere religioso, che finiva in buona parte per coincidere con i settori istruiti della popolazione in un paese in cui le scuole erano le madrase in cui si coseguiva il titolo di mullah a prescindere dalla professione svolta. I mezzi incruenti e l'ampio numero di dimostranti permisero al movimento ispirato dagli 'ulema di ottenere un parlamento eletto a suffragio ristretto (e per niente rappresentativo) incaricato di elaborare una costituzione, parlamento che "si definì in primo luogo in opposizione alla dinastia cagiara e alla burocrazia della vecchia guardia avida di ricchezze". L'A. descrive la compresenza e la contrapposizione tra laici nazionalisti, conservatori religiosi e minoranze progressiste, già ampiamente percepibile nelle dinamiche della prima Majlis -al pari delle concezioni che molti decenni dopo saranno il fondamento della Repubblica Islamica- come una costante della storia politica contemporanea del paese.
Sabhani descrive i primi anni del nuovo assetto istituzionale come caratterizzati dal perdurare della dipendenza da una tassazione aleatoria o da prestiti dall'estero e dalla scarsa presa del potere centrale sulle regioni periferiche, e il poco felice tentativo di migliorare il funzionamento della macchina statale ricorrendo a un consulente statunitense che fu lasciato a se stesso dagli USA e il cui operato irritò Gran Bretagna e Russia al punto da spingerle a muovere sul paese e a lasciare all'effettivo controllo delle autorità solo Tehran.
L'A. fa un paragone tra la rivoluzione costituzionale e il movimento dei Giovani Turchi, diversi per modalità e risultati, e indica i limiti della rivoluzione costituzionale nella sua eterogeneità di obiettivi e di protagonisti, oltre che nel suo svolgersi in un paese ancora sostanzialmente estraneo alla realtà contemporanea. L'A. afferma che la rivoluzione costituzionale fallì perché il Majlis ignorò la questione agraria e le condizioni disperate della maggioranza della popoolazione, perché urtò i gruppi sociali più influenti come i proprietari terrieri, le autorità provinciali, i capi tribali e gli 'ulema e perché le riforme introdotte servirono a garantire entrate all'erario e non a promuovere il benessere dei sudditi.
Nella Prima guerra mondiale fu impossibile alla Persia rispettare la neutralità dichiarata a causa dell'occupazione. Le potenze dell'Intesa avevano uffici consolari e concessioni le cui sedi erano i veri centri del potere, e i quindicimila effettivi dell'esercito -suddivisi tra una gendarmeria e un corpo dei cosacchi organizzato e (mal) retribuito da Mosca in pessimi rapporti tra loro- non permettevano nessuna seria iniziativa militare. La guerra evidenziò la crescente dipendenza del paese da beni e merci prodotti all'estero e la delegazione inviata alla conferenza di Parigi con l'idea di ottenere risarcimenti da entrambe le parti in conflitto non ottenne né la parola né il risarcimento dei danni subiti. Il Regno Unito tentò anzi di instaurare nel paese un protettorato di fatto, lavorando in segreto a un accordo anglo-persiano; l'A. sottolinea come il petrolio avesse attirato sul paese l'interesse delle principali potenze e come il Regno Unito avesse ottenuto fin dal 1901 concessioni petrolifere che portarono alla fondazione della Anglo Persian Oil Company. Il libro sintetizza anche le cause del fallimento dell'accordo anglo-persiano nell'opposizione della Majlis, nella riluttanza di Londra a impegnarsi a fondo e nella comparsa sulla scena prima degli USA e poi dell'URSS.
Nel quarto capitolo si tratta degli anni 1920-1940 e dell'ascesa dei Pahlavi iniziando dal colpo di stato -portato a termine con l'aiuto logistico ma non politico né diplomatico dei britannici- compiuto da Reza Khan, capo della brigata cosacca e poi fondatore della nuova dinastia. Nominato dall'ultimo shah cagiaro prima comandante dell'esercito e poi ministro della guerra, Reza Khan rifondò l'esercito affidandolo a ufficiali persiani e allentò i rapporti con i britannici, facendosi infine nominare primo ministro nel 1923 da uno Ahmad Shah poco interessato alle questioni di governo e iniziando una vittoriosa campagna di sottomissione dei gruppi tribali. Con la coscrizione obbligatoria Reza Khan tentò anche di unificare il paese diffondendovi il nazionalismo laico; i militari iniziarono a godere di una posizione privilegiata e di un buon livello di vita, anche se -avverte la Sabahi- diventarono i difensori di Reza Khan più che dei confini del paese. Nei decenni successivi peraltro i militari non sarebbero riusciti a impedire né l'invasione alleata del 1941, né il colpo di stato del 1953, né la rivoluzione del 1979. La modernizzazione del paese contemplò la costruzione della ferrovia transiraniana, l'unificazione dei pesi e delle misure, il divieto dell'uso del calendario religioso lunare per le operazioni commerciali, il ripristino del calendario persiano preislamico con inizio il 21 marzo (il nowruz) e l'abrogazione dei titoli nobiliari dell’epoca cagiara (mirza, khan, amir, beg, sardar, sheykh) con l'imposizione dell'adozione di un cognome: Reza Khan assunse quello di Pahlavi. Esclusa la prospettiva repubblicana percepita come antiislamica, nel 1925 Reza Khan ebbe dalla Majlis il titolo di comandante in capo che generalmente spettava al sovrano e poi lo nominò capo di stato, emendando infine la costituzione perché nel 1926 Reza Khan potesse incoronarsi Reza Shah Pahlavi. Il nuovo sovrano ringraziò il parlamento restringendone le prerogative, poi bandì i partiti politici, chiuse i giornali indipendenti e mise fuori legge i sindacati che esistevano solo dal 1921. L'A. indica nella dittatura di Reza Shah il prezzo che il paese dovette pagare per uscire dall'arretratezza; il sovrano ordinò la costruzione di ventiduemila chilometri di strade e finanziò le riforme con i profitti petroliferi, con una modesta tassazione dei redditi, con i dazi doganali e con i monopoli di stato anziché con prestiti contratti all'estero. Le città iniziarono a crescere per il formarsi di una popolazione operaia impegnata in un'industria a forte presenza statale, cui faceva da contraltare una popolazione nomade che il potere percepiva come anacronistica e che fu sedentarizzata (mettendo i gruppi gli uni contro gli altri e imponendo coscrizione e prelievo fiscale) con effetti negativi per un'economia in cui imperversavano la corruzione e l'arbitrio assai più che la libera iniziativa. Il tribalismo e la vita religiosa furono contrastati da Reza Shah anche con l'imposizione della moda occidentale e le limitazioni ai pellegrinaggi in Iraq e alle consuetudini sciite. La Sabahi descrive anche il peggioramento dei rapporti con gli 'ulema a seguito della esplicita laicizzazione del paese iniziata dal primo Pahlavi, che riprese simboli e usi preislamici per consolidare l'unità nazionale facendo anche riscrivere i libri di storia nel tentativo di stabilire una continuità tra gli imperi achemenide e sassanide e il proprio regno e cambiando in Iran la denominazione ufficiale del paese. Reza Shah finì col confiscare terre e fondazioni ai religiosi e con l'esibire nei loro confronti comportamenti di estremo disprezzo. Gli 'ulema, afferma l'A., adottarono la taqiya, la dissimulazione delle proprie idee politiche (e dell'odio verso il sovrano) e mantennero il controllo della situazione fuori dai centri urbani. L'autrice riporta la considerazione di un diplomatico britannico dell'epoca, per cui Reza Shah avrebbe dimenticato "il detto napoleonico secondo cui l’obiettivo primario della religione è evitare che i poveri uccidano i ricchi". Il primo Pahlavi anullò anche le giurisdizioni extraterritoriali concesse agli europei nel XIX secolo, nazionalizzò il telegrafo, riassegnò il diritto di conio e la gestione del gettito fiscale allo stato e limitò anche libertà di movimento e diritto alla proprietà dei non iraniani, senza comunque sottrarre il paese all'influenza britannica. I detrattori, frequenti soprattutto nel nascente ceto degli intellettuali laici, vedevano in ogni caso Reza Shah come "un militare motivato dai propri interessi personali, un cosacco addestrato dai russi e asceso al trono del Pavone grazie all’intervento britannico". La modernizzazione del paese si compendiava inoltre in una imitazione dell'Occidente che finì per colpirne l'identità.
Alla vigilia della seconda guerra mondiale, si legge nel quinto capitolo, i militari erano saliti a quattrocentomila effettivi ed erano i principali artefici dell’industrializzazione e della costruzione di infrastrutture in tutto il paese. L'esercito, la marina e l'aviazione erano stati dotati di armi moderne. In guerra Reza Shah -in buoni rapporti con la Germania- dichiarò neutrale il paese e rifiutò il passaggio ai rifornimenti diretti in Unione Sovietica. URSS e Regno Unito invasero il paese; la popolazione insofferente per l'oppressione governativa non insorse, Reza Shah fu costretto all'abdicazione e allontanato dal paese. La Sabahi sottolinea i compromessi con il clero sciita raggiunti dal nuovo sovrano, l'allentarsi della repressione e la parziale restituzione delle proprietà terriere e delle fondazioni espropriate, ed esamina l'ascesa del partito marxista Tudeh tra gli intellettuali e i professionisti della capitale e gli operai dell'industria petrolifera del sud oltre al consolidarsi dell'influenza statunitense nel paese dopo il 1942. L'A. nota come la presenza militare straniera in Iran si fosse tradotta in disagi e indigenza per la popolazione date le frequenti confische di derrate alimentari e la precedenza dei convogli e dei carichi militari diretti in URSS rispetto a ogni altro tipo di trasporto. L'ascesa dell'influenza statunitense portò sovietici e britannici a rimanere sine die nel paese; la Sabahi ricorda le vicende del governo autonomo dell'Azerbaigian iraniano e la curda Repubblica di Mahabad sostenute fino al 1946 dai sovietici, il ritiro di questi ultimi a fronte della fermezza degli statunitensi e dell'operato del camaleontico primo ministro Qavam che riuscì a ottenere il ritiro dei sovietici in cambio di concessioni petrolifere nel nord poi rivelatesi infruttuose, e infine la repressione manu militari delle repubbliche azera e curda decisa da Reza Pahlavi.
"La nazionalizzazione del petrolio fu una tappa fondamentale nella storia dell'Iran del Novecento", esordisce la Sabahi nel sesto capitolo sostenendo che secondo molti iraniani senza la deposizione di Mossadeq nel 1953 -avvenuta con il placet degli 'ulema ostili al Tudeh ad opera dei servizi segreti statunitensi- non ci sarebbero stati venticinque anni di dittatura di Pahlavi (con i quindicimila agenti della Savak addestrata con l'aiuto dello stato sionista, della CIA e dello FBI) e neppure la rivoluzione del 1979. La Sabahi sostiene che "Il colpo di Stato del 19 agosto 1953 contro Mossadeq è una pietra miliare sia nella storia dell’Iran sia in quella degli Stati Uniti: l’interruzione del processo democratico e l’instaurazione di una dittatura con il tacito consenso americano dimostrano le conseguenze negative delle ingerenze di Washington in Medio Oriente". L'A. inizia a trattare il tema esponendo le condizioni dell'Iran nel secondo dopoguerra e le difficoltà a finanziare i piani di modernizzazione decisi nel 1946; la Majlis divisa e poco favorevole al sovrano nonostante questi avesse fatto di tutto per frammentare ogni opposizione e metterla in condizioni di non nuocere non volle ratificare concessioni petrolifere al Regno Unito che avrebbero lasciato all'Iran solo le briciole. L'ascesa di Mossadeq e del suo Fronte Nazionale formato da nazionalisti, moderati e repubblicani ebbe luogo in queste circostanze; il suo leader cercò di combattere le ingerenze straniere e al tempo stesso lo strapotere dello Shah e fu favorito dal Tudeh e dalle sue mobilitazioni di piazza, mentre nel campo degli 'ulema suoi detrattori cominciava a concretizzarsi la piattaforma ideologica che avrebbe fatto da base per la rivoluzione del 1979: fine delle intromissioni straniere, sì a determinati aspetti della modernizzazione, no alla separazione tra religione e politica. Il "né Oriente né Occidente" ripreso da Khomeini. Secondo Farian Sabahi Mossadeq fu proposto provocatoriamente come primo ministro da un deputato conservatore che non lo riteneva capace di assumere responsabilità di governo, dopo che moti di piazza avevano indotto il parlamento ad approvare la nazionalizzazione del petrolio. Il libro descrive la dura reazione britannica con il congelamento dei fondi iraniani all'estero, il rimpatrio dei tecnici e l'isolamento diplomatico del paese, oltre alle misure con cui nel frattempo Mossadeq cercò di trasformare l'Iran in una monarchia costituzionale vera e propria. Il capitolo prosegue con la descrizione della operazione Ajax con cui i servizi segreti statunitensi e britannici fomentarono disordini infiltrando le manifestazioni del Tudeh, con le dimissioni che Mossadeq rifiutò di rassegnare e con il prudente viaggio dello Shah nella penisola italiana intanto che il nuovo primo ministro generale Zahedi si occupava di deporre Mossadeq e di farlo processare per tradimento. Tra le ripercussioni degli eventi la Sabahi cita il susseguirsi di una serie di primi ministri merei esecutori della volontà reale, la fondazione di un sistema rappresentativo bipartitico e soprattutto quella della "Organizazione per l'informazione e la sicurezza del paese", la polizia segreta Savak voluta dallo Shah nel 1957. Il fallimento di Mossadeq non sarebbe dovuto al mero intervento statunitense e britannico, ma anche all'incoerenza di un Fronte Nazionale che si reggeva solo sul nazionalismo e sul risentimento per le ingerenze straniere, alla ripetuta violazione delle norme costituzionali per liberarsi degli avversari politici (cosa di cui Mossadeq stesso rimproverava lo Shah), alla percezione difettosa delle questioni economiche e strategiche e alla sottovalutazione dei timori nei confronti dell'avanzata comunista nutriti negli Stati Uniti.
Gli anni Sessanta del XX secolo vengono descritti dalla Sabahi come quelli della "rivoluzione bianca", una campagna di riforme messe in atto con eccessiva velocità e senza le infrastrutture necessarie a sopportare il massiccio inurbamento favorito dalla loro introduzione. Nelle proteste che ne derivarono i religiosi guidarono gruppi mossi da motivazioni diverse e spesso opposte, ma uniti dalla convinzione che le riforme servissero per lo più a legittimare la monarchia. L'A. accenna per la prima volta alla fortuna politica di Ruhullah Musavi detto Khomeini a partire dalle proteste del 1963, sottolineandone l'atteggiamento cauto verso la riforma agraria e l'aperta avversione verso i veri parassiti del paese, a suo avviso non i seminaristi che passavano sui libri i loro anni migliori ma i ricchi dall'inavvicinabile tenore di vita. Imposta dagli USA in funzione anticomunista e come conditio sine qua non per la concessione di aiuti finanziari, la "rivoluzione bianca" prevedeva oltre alla riforma agraria la nazionalizzazione di pascoli e foreste, la privatizzazione delle industrie statali, la partecipazione dei lavoratori ai profitti delle società, la creazione di un "esercito del sapere" per l'alfabetizzazione (inviso agli 'ulema che ne detenevano il monopolio di fatto) e il suffragio femminile. Altri obiettivi, la creazione di un "esercito della salute", di un "esercito della ricostruzione e dello sviluppo", l'istituzione di tribunali nei villaggi, la nazionalizzazione delle risorse idriche e la riforma dell'amministrazione. Un corpo speciale di religiosi sottoposti allo Shah avrebbe fatto da contraltare agli 'ulema. Per contrastare le piazze e le proteste universitarie, specifica la Sabahi, furono assoldati picchiatori dai ceti più umili della capitale. Farian Sabahi illustra dettagliatamente le conseguenze della rivoluzione bianca e della riforma agraria in particolare. L'inizio dell'attività del suddetto "esercito dei religiosi" fece sostenere all'ascoltato Khomeini -più volte incarcerato per aver incitato alla rivolta contro il servizio militare obbligatorio per i religiosi e per aver esortato al boicottaggio delle elezioni- la necessità di uscire dal quietismo e di abbandonare la taqiya nei confronti di chi si era fatto dare un turbante dalla SAVAK. La politica di potenza dello Shah iniziò a creare malumori nella popolazione a causa dei moltissimi elementi stranieri ospitati in Iran, del loro sproporzionato potere d'acquisto e della loro impunità, oltre che per le spese necessarie al mantenimento di un esercito fra i più potenti al mondo che si rivelerà inutile contro l'insurrezione popolare e la guerriglia urbana. Ad appannare ulteriormente l'immagine della monarchia concorsero le discutibili iniziative propagandistiche di Reza Pahlavi e le spese esorbitanti da esse richieste. L'A. ripercorre prima le tappe della carcerazione e dell'esilio di Khomeini -prima in Turchia e poi in Iraq, realtà che gli permisero di rendersi conto della complessità del mondo musulmano- della sua elaborazione del concetto di governo islamico e della sua comprensione dell'importanza dei mass media, poi quelle della formazione e della storia del Movimento di Liberazione dell'Iran di Mehdi Bazargan e di Seyed Mahmud Talaqani, la cui linea politica ammettava la compatibilità di Islam, modernità e idee sociali progressiste e auspicava il coinvolgimento del clero sciita. La Sabahi conferma che mentre la crisi e la frammentazione del Tudeh sotto i colpi della repressione causarono la nascita delle formazioni armate dei Fedaiyan-e Khalq e dei Mujaheddin-e Khalq, Reza Pahlavi era tanto preoccupato dalla minaccia comunista da non rendersi conto del potenziale rivoluzionario dell'Islam sciita.
L'ottavo capitolo tratta dettagliatamente della rivoluzione del 1979 e dei primi anni della Repubblica Islamica, iniziando con la ricapitolazione dei principali motivi del diffuso scontento: modernizzazione come mera occidentalizzazione, eccessiva velocità del processo, inadeguatezza delle infrastrutture del paese a fronte della rapida crescita e della rapida urbanizzazione, crisi economica e corruzione diffusa i principali. La Sabahi cita la sostanziale inerzia dello Shah, il mancato sostegno statunitense alla repressione indiscriminata e le doti organizzative dei rivoluzionari e di Khomeini in particolare tra i fattori del successo della rivoluzione, i cui prodromi erano già avvertibili nel 1976. Nel dettaglio, L'A. esamina i tre eventi che più influirono sul corso della storia: l'incendio al cinema Rex di Abadan (trecento morti, a torto attribuito alla Savak), il Venerdi nero (la repressione in piazza Jaleh a Tehran contro una manifestazione non autorizzata), il trasferimento di Khomeini dall'esilio iracheno alla periferia di Parigi da dove poté comunicare con l'Iran in modo libero ed efficiente, protetto da forze speciali occidentali e con ampia copertura mediatica. La Sabhani esamina l'alternarsi di concessioni e mosse repressive con cui Reza Pahlavi cercò di contrastare le sempre più nutrite e distruttive manifestazioni di piazza e gli scioperi che nel 1978 per mesi bloccarono il paese, fino alle diserzioni nelle forze armate che nel gennaio 1979 segnarono l'inizio della fine per la monarchia e al debole governo Bazargan presto vittima dei gruppi armati e dei comitati rivoluzionari insediatisi dopo il ritorno di Khomeini.
Farian Sabahi riassume il pensiero filosofico e giuridico di Khomeini delineandone le due successive definizioni dottrinali, la prima conservatrice, esposta verso il 1942 in "La scoperta dei segreti", la seconda populista e militante delineata in "Il governo del giureconsulto", raccolta delle lezioni tenute a Najaf all'inizio degli anni Settanta. Il governo islamico è qui delineato come "dovere collettivo dei giuristi, uomini virtuisi cui spetta il diritto di governare". "A Khomeini spetta dunque il merito, o secondo alcuni la colpa, di aver trasformato lo sciismo da corrente quietista dell'Islam in ideologia politica e teoria terzomondista che sfidava l’imperialismo personificato dalle potenze straniere e dall’alta borghesia iraniana". L'A. indica a proposito come le considerazioni di Khomeini facessero di Reza Pahlavi un nemico dei bazari e della classe mercantile, e come in ogni caso il sostegno dei religiosi alla sua causa e alla sua persona non fosse privo di incrinature. In questo contesto la Sabahi colloca una dettagliata descrizione dell'assalto all'ambasciata statunitense che portò alla "crisi degli ostaggi"; gli studenti superarono in iniziativa i religiosi pretendendo l'estradizione dello Shah, provocando la fine del governo di Bazargan e inducendo gli USA a tentare una sfortunata azione di forza. I rapporti poco collaborativi tra Khomeini e il neoeletto Bani Sadr (costretto dopo l'invasione da parte dell'Iraq a rifugiarsi in Francia) non facilitarono la soluzione della crisi, che l'A. mostra di accreditare a un gesto almeno in parte pianificato con una certa cura. Altrettanto spazio è dedicato alle lotte intestine che caratterizzarono i primi mesi e anni di vita della Repubblica, dall'attentato che annientò i vertici del Partito Repubblicano Islamico (con precise eccezioni, cosa che consente agli storici di oggi di dissentire dall'attribuzione del gesto ai Mujaheddin-e Khalq) al tentato complotto di Nuzhih -condotto con l'aiuto iracheno- che se dimostrò alla Repubblica l'esistenza di un'opposizione determinata, rese al tempo stesso disperata la situazione di chiunque non rientrasse senza la minima critica nell'ortodossia, fino al periodo di recessione e isolamento internazionale della presidenza Khamenei. La Sabahi ritiene che la "guerra imposta" con l'Iraq sia stata essenzialmente una conseguenza della vendicativa condotta statunitense, e cita l'affare "Iran contra" con cui gli USA chiesero l'aiuto della Repubblica per liberare ostaggi in Libano in cambio delle armi che le servivano per difendersi dall'aggressione irachena come esempio di come propaganda e condotta concreta non siano sempre la stessa cosa. Con più accuratezza, le origini del conflitto vengono attribuite a una contesa tra paesi con ambizioni da potenza regionale e alla volontà di contrastare il diffondersi della rivoluzione negli ambienti sciiti. Khomeini non riuscì a esportare la rivoluzione nell'Iraq meridionale e la guerra inasprì l'isolamento in cui gli USA volevano che il paese restasse, intanto che affrontavano cinicamente la situazione vendendo armi a entrambi i contendenti e aiutando l'Iraq con informazioni di intelligence e finanziamenti. La guerra consentì di consolidare le istituzioni rivoluzionarie (i bassij furono fondati in queste circostanze) ma lasciò il paese esausto; a Tehran si era attinto a risorse proprie e il conflitto era stato finanziato senza contrarre debiti con l'estero.
La questione della pretesa fatwa di Khomeini contro Salman Rushdie viene trattata con la competenza necessaria a contestualizzarla nella serie di tentativi compiuti da Khomeini di estendere l'influenza sciita nel mondo islamico, noti nel loro complesso come "esportazione della rivoluzione". Nell'esame della visione politica di Khomeini la Sabahi considera l'evolversi del suo rapporto col nazionalismo, solo dagli anni Sessanta diventato sinonimo di laicità, occidentalizzazione e corruzione e quindi inconciliabile con l'Islam. Anche dopo la vittoria della rivoluzione Khomeini parlerà di "popolo musulmano dell'Iran", più che di "nazione iraniana", in modo da lasciare aperta la possibilità di esportare in altri paesi musulmani una rivoluzione islamica di portata universale. I limiti a questa potenzialità erano dati comunque dallo specifico contesto iraniano e soprattutto sciita in cui erano maturati l'elaborazione dottrinale e la rivoluzione stessa, e dai contenuti innovativi di essa: la costituzione della Repubblica Islamica riprende la divisione dei poteri e come modello ha la Quinta Repubblica Francese assai più del califfato.
Il carattere innovativo e per moltissimi aspetti privo di precedenti della rivoluzione islamica viene ribadito nel nono capitolo sui presidenti Rafsanjani e Khatami, ricostruzione e riforma. La rivoluzione non aveva fatto cambiare idea ai sostenitori del quietismo e a quanti avevano espresso riserve sul conto della dottrina di Khomeini, e tanto meno l'assetto politico che ne era nato era privo di aspetti incoerenti o contraddittori. Lo testimonia la storia dello ayatollah Montazeri, successore designato messo in disparte da un Khomeini in limine vitae per il legame percepito con i guppi di sinistra, per il suo minore carisma e per le riserve espresse a proposito della condotta della guerra. Khomeini aveva per anni risolto i conflitti di competenze nell'esecutivo: affidò il compito a un organo apposito, incaricato con una modifica alla Costituzione di agire in nome dell'interesse nazionale per comporre i conflitti tra majlis e Consiglio dei Guardiani. Le modifiche costituzionali volute da Khomeini ridefinirono la figura della Guida suprema. Non più un giureconsulto autorevole ma una "persona che gode dell’appoggio pubblico o della conoscenza sia della giurisprudenza islamica sia delle questioni politiche e sociali". La Sabahi specifica come Khamenei non soddisfacesse tutti i requisiti previsti per la Guida e come abbia potuto accedere alla posizione solo dopo un emendamento: l'impegno politico aveva fermato al grado di hojatoleslam la sua preparazione giuridica, il titolo di ayatollah gli venne concesso d'ufficio al momento della successione. La Sabahi presenta anche la figura di Rafsanjani, esponente della borghesia commerciale dalle solide credenziali rivoluzionarie, comandante delle forze armate e poi Presidente della Repubblica per due mandati dal 1989 col compito di ricostruire un Iran in cui il reddito pro capite era crollato del quaranta per cento. Il testo espone le caratteristiche dell'economia iraniana, in cui spiccano la dipendenza dal petrolio e dal gas e la politica di sussidi cui vengono destinati i proventi di queste risorse. Esproprio dei beni dei ricchi, aumento del settore pubblico con la riduzione delle possibilità di investimento per privati e stranieri e ridistribuzione del reddito tramite sussidi per i generi di largo consumo, coinvolgimento governativo in qualsiasi attività produttiva e commerciale ed esistenza di massicci fondi non segnalati nel bilancio statale hanno creato uno stato di cose in cui è impensabile sostituirli con altri meccanismi senza suscitare le reazioni della popolazione. L'A. cita l'accumulo di ricchezze possibile per chi abbia legami con le autorità (i prestiti in valuta estera a tasso agevolato permettono di rivendere la valuta estera sul mercato a un cambio molto più vantaggioso) e il ruolo delle fondazioni nate sui beni espropriati (come la Fondazione degli oppressi e degli invalidi di guerra, la Rezavi legagta al mausoleo di Mashhad, la Noor che opera nelle importazioni) e da cui dipenderebbe circa il 40% dell'economia.
La fine dell'Unione Sovietica non è stata senza conseguenze per la Repubblica Islamica; la Sabahi mostra come essa abbia comportato potenziali vantaggi economici, industriali e commerciali in Asia Centrale, pur nella diffidenza delle nuove repubbliche nei confronti dell'Islam sciita e del suo potenziale rivoluzionario. Nel paragrafo seguente viene considerata anche la storia dell'embargo statunitense dal 1995 in poi, con una certa attenzione per le sue ripercussioni per l'industria estrattiva e per quella dei trasporti aerei. Da notare che nel secondo caso l'intromissione statunitense ha finito per esporre al rischio di incidenti anche mortali l'utenza delle compagnie aeree della Repubblica.
Con Khatami nel 1997 venne eletto un critico feroce del capitalismo e dell'imperialismo che aveva fatto breccia nell'elettorato più giovane e tra le donne con le sue promesse di privatizzazioni e maggiore occupazione, di democrazia religiosa e di maggiore libertà di espressione. Il suo "governo della legge" viene percepito come implicitamente opposto al "governo islamico". La sua rielezione nel 2001 fu dovuta secondo l'A. all'assenza di valide alternative, stanti gli scarsi risultati di un primo mandato in cui ogni iniziativa riformatrice era stata bloccata dallo establishment conservatore e dalla Guida suprema ricorrendo a ogni mezzo, lecito o meno, per chiudere la bocca a molti suoi sostenitori. La Sabahi entra nel dettaglio di vari episodi della repressione, con la chiusura di decine di pubblicazioni periodiche, arresti arbitrari, aggressioni ai collaboratori di Khatami, le vicende processuali di intellettuali e dissidenti (uno su tutti, Hashem Aghajari), il succedersi delle manifestazioni di piazza frutto della frustrazione per la mancata attuazione delle riforme promesse portate avanti da gruppi senza leader carismatici e senza proposte politiche chiare. Nel 2001 il fronte riformatore della Repubblica Islamica dell'Iran aveva espresso solidarietà agli USA, offerto aiuto logistico e durante l'aggressione all'Afghanistan anche dato disponibilità ad aiutare piloti statunitensi in difficoltà. La presidenza USA li ringraziò includendo la repubblica Islamica fra gli "stati canaglia", e come conseguenza dell'aggressione statunitense l'Iran dovette affrontare l'aggravarsi del problema rappresentato dai profughi afghani e la gestione, peggio che pericolosa, degli alti gradi di AlQaeda entrati nel paese con il più o meno esplicito consenso di questa o quella personalità.
La Sabahi affronta la questione del nucleare iraniano ricordando come lo sviluppo del nucleare sia legato a motivi di prestigio e alla volontà di proseguire con la costruzione di una potenza regionale iniziata dallo Shah. Una continuità che la Repubblica Islamica cerca di concretizzare. In quest'ottica non è accettabile che ex colonie britanniche come il Pakistan e l'India dispongano di armamenti atomici mentre l'Iran deve superare ogni sorta di ostacolo internazionale anche solo per mettere in funzione una centrale. Esistono poi la percezione di una necessità strategica concreta a fronte di vicini turbolenti o imprevedibili, e quella della crescente domanda di energia.
Nel 2005 Mahmoud Ahmadinejad venne eletto Presidente della Repubblica Islamica. L'A. ne riporta la biografia e ne ricostruisce la carriera politica al netto delle dicerie, notando come la sua ascesa abbia portato ad avere un ruolo decisivo per le sorti del paese i paramilitari che avevano combattuto la Guerra Imposta e come Ahmadinejad e i suoi si fossero scontrati sia con i riformatori di Khatami che con la destra pragmatica di Rafsanjani, tacciando il primo di aver svenduto il diritto dell'Iran ad avere voce in Iraq e in Afghanistan e il secondo di essere espressione di una ricca oligarchia lontanissima dalla gente comune. Secondo la Sabahi Ahmadinejad dovette il proprio successo alla impopolarità del ricco Rafsanjani, alla promessa di lottare contro la corruzione di fronte al fallimento della politica economica di Khatami (dovuto soprattutto ai veti del Consiglio dei guardiani) e alla mobilitazione dei pasdaran e dei basij da parte di Khamenei contro lo stesso Rafsanjani. Questo, in consultazioni per lo più dalla scarsa affluenza e dominate dalla delusione nei confronti dei riformisti. Il consenso per Ahmadinejad e per il suo governo formato da personalità dello establishment di estrema destra e da figure prive di precedente esperienza politica viene attribuito dall'A. alla volontà di contrapporsi alle aggressive ingerenze esterne, soprattutto statunitensi, alla fitta e generosa presenza di sovvenzioni statali con cui considerevoli fasce della popolazione integrano il proprio reddito o si assicurano un livello di vita tollerabile, e alla decisione dell'esecutivo Ahmadinejad di estendere la copertura sanitaria a tutta la popolazione, compresi i quattro milioni di individui della popolazione nomade. La vittoria dei conservatori alle elezioni del 2008 (il consiglio dei guardiani aveva escluso quasi la metà dei candidati) -scrive la Sabahi- servì a Khamenei per arginare la presidenza di uno Ahmadinejad la cui rielezione appariva una possibilità concreta. Questo, in un contesto in cui la popolazione non risparmiava atroci barzellette a tutti i contendenti, in cui individui rivestiti di responsabilità vitali si rivelavano capaci di bassezze sconfortanti (uno su tutti, il ministro degli interni Ali Kordan, letteralmente cacciato dopo che aveva esibito un diploma oxfordiano di master universitario malamente falsificato) e in cui Ahmadinejad veniva pesantemente criticato dagli ebrei iraniani per le ostentate dichiarazioni revisioniste. Farian Sabahi ripercorre quindi la storia dell'energia nucleare in Iran, iniziata nel 1974 e ripresa dieci anni dopo in mezzo a difficoltà di ogni genere dovute al rifiuto dei paesi occidentali di collaborare al completamento dei programmi, fino al molto pubblicizzato allarme occidentale per le potenzialità belliche nucleari del paese all'epoca della presidenza Ahmadinejad. Epoca in cui, considera la Sabahi nei paragrafi seguenti, la situazione giuridica delle donne era ancora caratterizzata da una condizione di marcata inferiorità, la repressione delle minoranze sunnite e curde aveva ripreso vigore portando anche a condanne a morte di molti "nemici di Dio" -espressione con cui si indicano coloro che insorgono in armi contro la Repubblica- e anche testate giornalistiche e blogger avevano fatto le spese della stessa intransigenza. Considerando la politica estera dell'esecutivo di Ahmadinejad la Sabahi ricorda come il soccorrevole atteggiamento russo non fosse affatto disinteressato, né per la questione del nucleare né per l'allineamento geopolitico dei due paesi in funzione antistatunitense e antisionista, e come l'inizio della presidenza Obama negli USA facesse sperare anche i cittadini della Repubblica in una netta cesura rispetto all'aggressività della precedente amministrazione. L'undicesimo capitolo tenta una sintetica esposizione dei maggiori avvenimenti dei dieci anni compresi fra il 2008 e il 2018, usando come riferimenti bibliografici varie gazzette per lo più occidentali. L'A. espone i toni concilianti con cui Barack Obama si accostò all'inizio della presidenza alla diplomazia verso la Repubblica Islamica e un certo numero di vicende personali arrivate all'attenzione dei mass media, di solito perché i loro protagonisti erano incorsi (non sempre meritatamente) nei rigori di una giustizia penale non certo nota per essere corriva nei confronti dei trasgressori. Molta risonanza mediatica ebbero anche gli scontri di piazza che seguirono i risultati delle elezioni presidenziali del 2009; dopo la riconferma di Ahmadinejad e le accuse di brogli mosse all'apparato che lo sosteneva l'elettorato si spaccò in due tra i suoi sostenitori e quanti avevano creduto in Musavi e nelle sue promesse riformatrici. In seguito agli scontri, pur senza fare nomi, come risposta a una precisa richiesta dell'allievo e sostenitore del fronte riformatore Mohsen Kadivar l'ayatollah Montazeri (successore designato di Khomeini, poi allontanato per la sua vicinanza alla sinistra politica) emise pochi mesi prima di morire una fatwa molto critica verso la condotta della destra appena riconfermata; dal governo dei giureconsulti si stava passando al governo dei militari; i giureconsulti avrebbero dovuto lottare per la giustizia e non rimanere in silenzio davanti ai soprusi. Secondo un saggio citato dalla Sabahi la "onda verde" di Musavi non ebbe il successo che due anni dopo avrebbero avuto le "primavere arabe" perché l'apparato non si fece cogliere di sorpresa ed era cosciente dei brogli elettorali commessi, chiuse la bocca ai mass media ostili, mise in campo forze armate laddove nei paesi arabi fu solo la polizia a cercare di arginare le proteste, e contò sulle condizioni di relativo isolamento del paese per non preoccuparsi delle reazioni internazionali. I leader dell'"onda verde" inoltre erano riformisti, non rivoluzionari. Nel suo secondo mandato Ahmadinejad abbandonò i troppo marcati tentativi di rendersi indipendente quando si rese conto che i pasdaran sarebbero rimasti dalla parte della Guida, e percorse il paese raccogliendo consensi nelle zone più povere e lontane dalla capitale. Negli stessi anni, rileva l'A., gli scienziati che curano il programma nucleare iraniano sono rimasti vittime di una serie di attentati mentre le installazioni del programma sono andate soggette a sabotaggi informatici e strane esplosioni, atti di cui vengono correntemente incolpati i servizi segreti dello stato sionista e che furono tra le ragioni dell'assalto all'ambasciata britannica, riaperta solo nel 2015. Trattando delle elezioni parlamentari del 2012 vinte dai seguaci di Khamenei la Sabahi specifica le condizioni necessarie per far parte dell'elettorato passivo: cittadinanza iraniana, laurea specialistica, sostere la Repubblica Islamica, essere fedeli alla Costituzione, comportarsi da musulmano praticante (con l'eccezione dei cinque deputati delle minoranze), godere di buona reputazione, godere di buona salute anche mentale e avere fra i trenta e i settantacinque anni. Trattando dell'elezione presidenziale del 2013 vinta da Hassan Rohani l'A. afferma che "per la maggior parte degli iraniani le elezioni sembrano esser l'unico modo per innescare un qualche cambiamento senza correre troppi rischi", che il presidente eletto aveva promesso di mettere fine all'isolamento e alle sanzioni e di migliorare le condizioni dell'economia e che la sua elezione rappresentò la rivincita dei religiosi, cui era andato anche il sostegno dei moderati e dei centristi, sui militari. I molti compromessi necessari a governare non consentiranno a Rohani di mantenere molte promesse, anche se nel luglio 2015 riuscì a stringere l'accordo sul nucleare (di cui il libro fornisce svariati dettagli) che permise all'Iran di uscire dall'isolamento internazionale e consentì al fronte moderato di vincere le elezioni parlamentari del 2016. Tra le varie vicende cui fa cenno, la Sabahi cita la disavventura in cui è incappato il ricco Babak Sanjani; nella Repubblica Islamica dell'Iran "diffondere la corruzione sulla terra" e appropriarsi indebitamente di enormi somme sottraendole all'erario costa la condanna a morte, specie se i vertici dell'esecutivo intendono ripulire dai corrotti la pubblica amministrazione di un paese in cui lo stato controlla direttamente o indirettamente il settanta per cento dell'economia. La Sabahi esamina quindi il risultato delle consultazioni che confermarono Rohani nel 2017 considerando che il voto per l'antagonista Raisi, oltre ad affidare la presidenza a uno che negli anni Ottanta aveva mandato a morte migliaia di oppositori senza battere ciglio ed era per questo finito ai margini della vita politica del paese, avrebbe segnato un rafforzamento delle politiche populiste ma anche un ritorno all'isolamento sul piano internazionale. L'A. ricorda che le elezioni erano servite a mettere sul tavolo una serie di questioni (dai negoziati con l'Afghanistan all'interventismo in Siria) cui i cittadini si dimostrarono attenti; "il vero vincitore di queste presidenziali è stato il leader supremo Khamenei che ha ribadito così la legittimità della Repubblica islamica. Le lunghe code ai seggi (in Iran e all’estero) aperti fino a tarda ora e l’affluenza alle urne del 70% sono state la prova che la Repubblica Islamica è ancora in grado di sopravvivere alle sue numerose crisi esistenziali". In politica estera, ripete la Sabahi, l'Iran sconta la doppia colpa di non essere mai stato una colonia o un protettorato e di non essere un acquirente di armamenti dagli USA; di qui la denuncia dell'accordo sul nucleare da parte dell'amministrazione Trump, che si rivelerà un passo falso. In politica interna invece è percorso da ricorrenti ondate di protesta per le misure impopolari che Rohani ha varato per rimettere in sesto l'economia, dato anche il mancato arrivo di capitali stranieri, cui rispondono puntuali (e oceaniche) contromanifestazioni in favore della Repubblica. Dal 2009 in poi, spiega la Sabahi, sono cambiate le priorità dei manifestanti; dal protestare per maggiori diritti si è passati a protestare per la corruzione e l'incompetenza dei potenti, per i salari scarsi e in ritardo, la svalutazione, le sanzioni internazionali, la siccità, i tagli all'energia elettrica, la svalutazione. A fronte di una minaccia esterna l'opinione pubblica reagirebbe senz'altro compattandosi e rafforzando i vertici della Repubblica Islamica, si legge nel corso della trattazione dei pessimi rapporti intrattenuti con gli USA dell'amministrazione Trump che si sono tradotti nell'applicazione di sanzioni economiche in grado di impensierire chiunque non sia da decenni abituato al contrabbando e alle triangolazioni e nell'aperto sostegno ai nemici della Repubblica Islamica, in primo luogo l'Arabia Saudita e la sua aggressione allo Yemen. Sul piano interno, tra gli altri problemi, insiste una sanguinosa guerriglia sunnita separatista capace di azioni eclatanti; l'A. ricorda tra gli altri la strage di Ahvaz del settembre 2018. A quarant'anni dalla rivoluzione il controllo dell'economia da parte delle fondazioni e delle imprese che fanno capo all'apparato militare è una caratteristica della Repubblica Islamica che una riforma autentica per il rilancio dell'economia dovrebbe senz'altro mettere in discussione. Farian Sabahi specifica che accettare le limitazioni alla sovranità che l'accordo sul nucleare comporta è servito solo ad attirare le sanzioni statunitensi, non ha fatto affluire investimenti stranieri, non ha facilitato la vita ai cittadini e ha invece favorito la causa degli intransigenti.
Con lo stesso stile il dodicesimo capitolo esamina gli avvenimenti del 2019, cominciando col differenziarsi dell'atteggiamento dell'Unione Europea rispetto alla linea politica degli Stati Uniti in materia di sanzioni e di scambi economici e commerciali."Gli USA sembrano fare sempre le stesse scelte sbagliate, aspettandosi però risultati diversi", si commenta obiettivamente da Tehran. Nel corso dell'anno le conseguenze impreviste e negative dell'accordo sul nucleare continuano a provocare sommovimenti nel mondo politico iraniano; il ministro degli esteri Zarif va a un passo dalle dimissioni, accusato di aver svenduto sovranità in cambio di niente e di aver coinvolto il paese in impegni militari in Siria, Libano, Iraq e Palestina (settore in cui il generale Soleimani porta avanti una sorta di agenda propria spesso in contrasto con quella dell'esecutivo) invece di usare risorse per fronteggiare le necessità della cittadinanza. I pasdaran, da tempo interlocutori economici e finanziari con imprese e istituzioni europee suscettibili di essere colpite dalle sanzioni statunitensi (ne farà le spese tra gli altri Unicredit) vengono inseriti dagli USA tra le organizzazioni terroristiche in nome di vecchi rancori e in omaggio alle lobby sioniste e filosaudite. Le minacce statunitensi trovano una popolazione poco attenta, nonostante per tutto l'anno vadano avanti abbattimenti di droni e vicendevoli sequestri di petroliere, a causa dei problemi economici aggravati dall'inclemenza del tempo; anche in questo caso, commenta Farian Sabahi, un'aggressione esterna non farebbe che compattare l'opinione pubblica nonostante le storture, le imposizioni e le angherie del potere costituito. L'approccio della Repubblica Islamica alla politica del Golfo, con l'invito ai vicini a uscire dall'influenza USA e il proseguire di iniziative ostili contro l'Arabia Saudita, viene commentato dall'A. con molte citazioni da "L'arte della guerra" di Sun Tzu. Nello stesso 2019 per uscire dalle sanzioni Rohani annuncia, specie all'attenzione dei paesi europei, sia la ripresa dell'arricchimento dell'uranio che la scoperta di un grosso giacimento; "le ingiustizie economiche, la disoccupazione, la corruzione, l’aumento delle tasse, la sfiducia in politici incapaci di gestire la cosa pubblica" sono alla base di un malcontento sempre più diffuso che sfocia sempre più spesso in rabbiosi scontri di piazza, estese distruzioni e scontri a fuoco con centinaia di vittime, a quanto sembra con la mano della criminalità comune. Alla fine dell'anno gli USA attaccano basi di combattenti sciiti in Iraq; la popolazione irachena reagisce assediando l'ambasciata statunitense.
La reazione statunitense consiste nell'assassinio del generale Qassem Soleimani, comandante delle forze speciali al-Quds dei pasdaran considerato un eroe dai suoi uomini e l'effettivo numero due della Repubblica Islamica dall'opinione pubblica iraniana. È l'evento con cui si apre il 2020 secondo la trattazione della Sabahi. L'operazione ha l'effetto di ricompattare all'istante l'opinione pubblica, di dare il colpo di grazia agli accordi sul nucleare (con reazione statunitense che troncherà gli ultimi rapporti commerciali esistenti con l'Europa) e di provocare come reazione l'attacco missilistico contro due basi statunitensi in Iraq. Nel corso dell'anno le elezioni parlamentari vengono vinte dai fondamentalisti di Usulgaran, anche per la bassa affluenza, a sua volta dovuta non solo alla disaffezione, allo sdegno per le menzogne del governo sull'abbattimento di un aereo di linea ucraino e ai problemi economici, ma alla pandemia in pieno sviluppo. Solo il materiale sanitario sfugge (in parte) alle sanzioni. Nonostante questo i pasdaran mettono in orbita il primo satellite militare della Repubblica Islamica, il Nour 1.
Il volume si chiude con una lunga cronologia, con un glossario dei vocaboli (per lo più in farsi) specifici della materia e con una bibliografia ricca di spunti di approfondimento. Varie opere letterarie, ma anche cinematografiche, vengono inoltre citate dall'A. nel corso del testo.


Farian Sabahi - Storia dell'Iran. Il Saggiatore, Milano 2020. 506 pp. 403