La seconda edizione di questa storia politica e culturale dell’Afghanistan è stata pubblicata da Barfield nel 2022, dopo il tracollo del governo retto dalle armi occidentali. L’A. Afferma di aver integrato il testo con un ultimo capitolo rispetto all’edizione del 2010, senza modificare sostanzialmente quanto già pubblicato dal momento che temi e problemi trattati sono rimasti attuali. Nella prefazione originale Barfield sosteneva che fino al 2001 il suo interesse per l’Afghanistan -maturato con reiterate permanenze nel paese- lo aveva messo, secondo i “critici del sistema cattedratico universitario [...] tra quegli inutili docenti che fornivano ai giovani conoscenze esoteriche e irrilevanti senza alcun timore di un possibile licenziamento” e che l’incompetenza che caratterizzava in proposito la classe politica statunitense avrebbe consentito a chiunque di presentare i cliché più triti come intuizioni profonde.
Nell’introduzione si rileva come affrontare la storia dell’Afghanistan enfatizzando guerre e invasioni ritragga il paese come uno sfondo indistinto di drammi internazionali in cui erano sempre gli altri ad avere l’iniziativa. L’intento dell’autore è invece quello di considerare gli afghani come dei protagonisti e di seguire nella narrazione una impostazione antropologica che consenta di rispondere ai maggiori interrogativi sulla storia afghana. Tra questi, il perché l’Afghanistan sia noto come tomba degli imperi, la mancata insurrezione nazionale dopo l’aggressione statunitense del 2001 e l’inefficacia dei tentativi stranieri di influire sulle strutture politiche e sociali. A questi interrogativi Barfield ne affianca altri, sulla stabilità della dinastia che resse il potere dal 1747 al 1978, sui pochi segni di disintegrazione come stato nazionale nonostante tutto, e sui ricorrenti vuoti istituzionali dovuti alle divisioni sociali, dal 1920 in poi. L’A. Indica come molte spiegazioni vadano cercate nell’aumentata partecipazione alla politica e nell’aumento dei contendenti per il potere che si verificò col cambiare dell’ecologia politica della regione nel XIX secolo. Le successive invasioni, iniziate dal Regno Unito nel 1839 e nel 1878, avrebbero costretto la élite al potere a ricorrere a milizie rurali su cui aveva poco controllo e con cui si rifiutò ogni volta di condividere il potere; il ripristino dell’autorità centrale dopo ogni episodio si sarebbe fatto sempre più difficile. L’invasione sovietica avrebbe dato il colpo di grazia alla vecchia tradizione dinastica, senza lasciare nulla con cui sostituirla. Il coinvolgimento nella lotta per il potere di porzioni sempre più ampie della popolazione avrebbe invertito il processo di centralizzazione imposto a partire dal 1880 con il regno di Abdur Rahman. Barfield crede che alla fine del XX secolo il corpo politico afghano fosse afflitto “da una malattia autoimmune in cui gli anticorpi della resistenza minacciavano di distruggere qualsiasi struttura statale indipendentemente da chi la controllava o dalla sua ideologia” e che per la prima volta da un secolo e mezzo il paese si trovasse privo degli aiuti esterni che gli erano indispensabili a finanziare la macchina governativa. I talebani afghani avrebbero preso il potere nel 1996 con l’appoggio pakistano e sarebbero rapidamente caduti nel 2001 perché tutti i non pashtun del paese si sarebbero ribellati al loro dominio. L’A. Rileva i difetti del sistema politico instaurato dopo l’occupazione: “un sistema ideato per degli autocrati in una terra dove l’autocrazia non era più politicamente sostenibile” con elezioni farsa e un ritorno a una rigida centralizzazione, che secondo gli occidentali avrebbe consentito di evitare che il paese si frammentasse lungo linee etniche e regionali secondo intendimenti che avevano in realtà poco o nessun seguito, essendo la società afghana caratterizzata da una ideologia etnica senza nazionalismo e da una politica pragmatica per lo più immune alle ideologie.
L’A. Conferma alcuni luoghi comuni sul paese, che considera effettivamente medievale e biblico sotto alcuni aspetti. Medievale perché la religione vi ha un ruolo determinante, biblico perché conserva un’economia di sussistenza. Ne sottolinea le diversità geografiche e culturali a livello regionale, e soprattutto considera perdurante nella società afghana il modello con cui Ibn Khaldun ripartiva nel XIV secolo l’organizzazione politica, in cui una “civiltà del deserto” -relativamente egualitaria, solidale e povera di mezzi- si contrapporrebbe a una “civiltà sedentaria” gerarchizzata e accumulatrice. Dopo aver esaminato i modelli premoderni dell’autorità politica che hanno caratterizzato il paese fino al XIX secolo con il lungo predominio di dinastie di lingua turca, l’A. Passa ad esaminare l’ascesa dei pashtun nel XVIII secolo e poi la progressiva erosione del potere delle élite tradizionali dal XIX secolo in poi, giungendo infine a una dettagliata disamina della storia politica del XX secolo, considerato in tre periodi distinti (1901-29, 1929-78 e 1978-2001). Nel corso del XX secolo si sarebbe affermato un modello in cui fazioni ideologicamente contrapposte si sarebbero sostituite le une alle altre in modo sempre più violento, rendendo ogni volta più difficile la ricostituzione dello stato.
Popoli e luoghi presenta le condizioni etniche e geografiche dell’Afghanistan secondo l’approccio antropologico annunciato nell’introduzione: molto in sintesi, le persone non rispondono allo stesso modo in Kansas o a Kandahar. E a Kandahar come in tutto l’Afghanistan rurale sostenere la comunità di appartenenza prevale anche su eventuali conseguenze negative per il singolo. La società e la politica afghane sarebbero inoltre il prodotto della geografia e di aspetti della vita materiale e dell’organizzazione sociale poco suscettibili di cambiamenti repentini, come la fede religiosa, l’economia di sussistenza e l’architettura.
La lealtà degli individui va al qawm: consanguinei, villaggio, gruppo etnico a seconda delle circostanze. L’A. Mette in guardia contro la fallacia interpretativa delle carte etnografiche che consentono di orientarsi solo grossolanamente tra pashtun, tagiki, hazara, uzbeki, turkmeni, aimaq, nuristani e beluci, e nota che tutti i gruppi hanno un’epica di conquista o di reinsediamento ancora capace di suscitare compartecipazione. Riprendendo i criteri di Fredrik Barth, l’A. Considera gruppo etnico quello che soddisfa i quattro criteri della riproduzione biologica, della condivisione di valori culturali fondamentali, della creazione di un terreno di comunicazione e interazione e di un senso identitario, per autodefinizione oppure per definizione altrui. Nel caso specifico -si legge- non si tratta di appartenenze immutabili, nonostante gli interessati insistano sul contrario. In Afghanistan ricorrerebbero sia una certa flessibilità delle identità sia una loro manipolazione strategica -tanto più abile quanto più è difficile da contestare- utile a giustificare ostilità o collaborazioni. Barfield distingue gruppi tribali e gruppi non tribali, distinti in base alla precisione con cui vengono conservate e considerate le genealogie (molto alta tra i pashtun e bassa tra gli hazara) ma in pratica sono l’abbigliamento e l’acconciatura degli interessati a fornire prove visive di appartenenza.
Barfield riferisce dei problemi per censire una popolazione in cui i dati di appartenenza etnica sono politicamente sensibili e in cui sono frequenti le stime di parte. Il libro presenta una dettagliata disamina dei gruppi etnici, iniziando dai più numerosi -i pashtun con le loro suddivisioni, i tagiki, gli hazara, gli uzbeki, i turkmeni, gli aimaq- e passando ai più piccoli, che hanno avuto importanza storica a prescindere dalla ridotta numerosità come i nuristani, i pashai, i qizilbash, i baluci, gli arabi e i pamiri, le comunità jugi e jat, i kirghisi e le poche migliaia di sikh che sono gli unici non musulmani del paese.
Al di là dell’identità di gruppo e della struttura culturale islamica Barfield considera anche gli stili di vita -tanto insignificanti per gli afghani quanto rilevanti per un osservatore- e nota come solo negli ultimi cinquant’anni i villaggi isolati e autosufficienti abbiano perso popolazione a vantaggio dei grossi centri urbani, senza che questo togliesse all’agricoltura di sussistenza -caratterizzata da durezze oggetto di una vivace descrizione- il ruolo di protagonista dell’economia. La struttura dell’agricoltura di sussistenza è comunque così solida da permettere di resistere ad eventi che farebbero crollare sistemi più complessi, avverte Barfield; gli afghani sarebbero sopravvissuti proprio perché sempre in grado di soddisfare i bisogno di base e grazie alla rete di legami familiari e sociali che si formano in queste situazioni.
I modelli di insediamento in Afghanistan vengono ripartiti in villaggi rurali, accampamenti nomadi e città, economicamente interconnessi e caratterizzati da decine di tipi di strutture abitative. Barfield sottolinea l’importanza dell’acqua e delle necessità di difesa, per i villaggi che per lo più vivono di un’agricoltura basata su piccoli appezzamenti di proprietà familiare, e il ruolo delle popolazioni nomadi di lungo corso (pashtun) o che seguono transumanze per brevi distanze (uzbeki, turkmeni, kirghisi). La popolazione eterogenea dei piccoli centri urbani produce e scambia oggetti indispensabili alla vita negli altri modelli di insediamento, e attira anche mano d’opera stagionale. La loro funzione di centri amministrativi, scrive Barfield, è sempre stata poco incisiva.
Secondo l’autore l’Afghanistan è un esempio di società islamica antica in cui la religione è uno stile di vita onnicomprensivo (un dato spesso sfuggito ai primi ricercatori) e in cui è impensabile ridurre la religione a fatto privato. Anche sotto occupazione occidentale nessuno discusse sulla definizione di “Repubblica Islamica dell’Afghanistan”, trattandosi di una formula descrittiva che prevedeva un esecutivo composto da buoni musulmani in un contesto dove la popolazione generale presume non possa esistere altra politica che quella islamica. Barfield nota che il senso di identità forte e non problematico diffuso tra gli afghani li rende diffidenti verso qualsiasi valore o stile di vita sia rappresentato da non credenti, e anche verso i musulmani di altra provenienza nei cui confronti accampano una sorta di supremazia etica.
L’A. Esamina la geografia del paese, in cui repentini cambi di altitudine conferiscono al territorio una grande diversità climatica ed ecologica cui corrisponde un'altrettanto varia produzione agricola, e le vie che lo percorrono funzionando non solo come rotte economiche, ma anche come interfacce culturali tra mondi diversi. Nota anche l’artificiosità dei confini del paese rilevando in particolare come la linea Durand che dal 1893 lo divide dal Pakistan non sia mai stata accettata da alcun governo, e come al contrario siano da sempre esistite come tali le sue principali componenti regionali. Ai costitutivi di base di Herat, Kandahar, Balkh con Mazar-i Sharif e Kabul, compiutamente descritti dall’A., si aggiungerebbe storicamente la oggi pakistana Peshawar. Il libro presenta la storia e le peculiarità socioeconomiche, geografiche ed etniche di ciascuna regione, tenendo in considerazione anche le vie di comunicazione, i legami commerciali e culturali di ciascuna con le altre e con i paesi confinanti.
Barfield avverte che una collocazione geopolitica precisa dell’Afghanistan è problematica, stante la sua indubbia identità turco-iranica secondo un ethos molto più antico dell’Islam e ancora rintracciabile in usi diffusissimi come la celebrazione del Noruz. Riprendendo la citata ripartizione proposta da Ibn Khaldun e rapportandola ad un Afghanistan che a tutt’oggi le corrisponderebbe, l’A. Definisce i tratti peculiari delle civiltà del deserto che in Afghanistan coesistono e interagiscono con le civiltà sedentarie. Nelle prime, ancora oggi l’economia di sussistenza lascerebbe pochi appigli alla differenziazione di classe, alla specializzazione economica e all’accumulo di capitale; la lealtà comunitaria vi si reggerebbe ancora su una forte solidarietà di gruppo basata sulla consanguineità e sulla discendenza. Il pashtunwali è portato dall’A. Come il più diffuso e importante esempio di codice di principi comportamentali in cui la massima importanza è data al mantenimento dell’onore e della reputazione. La diffusione di valori tanto egualitari -avverte Barfield- è sempre stata problematica per l’affermazione della supremazia politica perché ogni tentativo in questo senso deve affrontare ostacoli e rivali e ogni posizione da leader risulta strutturalmente debole. L’A. Rileva con Khaldun che nelle civiltà sedentarie invece la complessa divisione del lavoro in cui il denaro ha la meglio sui vincoli di parentela; l’esistenza di eccedenze di produzione consente di sostenere centri di studio e di produzione artistica. Nel caso dell’Afghanistan, nelle città sorgono centri di educazione islamica sunnita, santuari e madrase rette dalle fondazioni caritatevoli cui contribuiscono i privati cittadini; gli sciiti avrebbero sempre prosperato nelle aree marginali. Tra i caratteri delle civiltà sedentarie l’A. Ricorda l’identità definita dalla residenza, le suddivisioni gerarchiche di classe che si rispecchiano nella cultura materiale e il fatto che gli interessi individuali prevalgano su quelli collettivi. Barfield specifica come le disuguaglianze cittadine consentano l’accumulazione di ricchezze e l’affermazione di capi politici autocratici e di autorità centralizzate; in quello che l’A. Considera un allontanamento significativo dalla storia occidentale, le civiltà sedentarie del mondo islamico descritto da Ibn Khaldun affidavano la difesa a mercenari o a schiavi arruolati e spesso erano militarmente più deboli delle civiltà del deserto che le circondavano. Anche di qui l’importanza, nello scenario afghano, dei nomadi e dei popoli montani in generale, che costituiscono comunità su cui il controllo governativo è a tutt’oggi debole.
In Conquista e governo dell’Afghanistan premoderno inizia l’esposizione delle vicende storiche del paese. Poco attraente di per sé, il territorio afghano consente comunque di accedere all’India e all’Asia centrale, e di controllare le relative rotte commerciali. Barfield nota che i dominatori premoderni cercarono di controllare i pochi centri e le poche aree produttive -separati da deserti e catene montuose che costituivano yagistan, “terre senza legge”- e difficili da integrare in un’unica struttura statale. La diffusa convinzione che l’Afghanistan non sia mai stato conquistato sarebbe dovuta al fatto che i dominatori aggiravano gli yagistan o vi imponevano una sovranità solo simbolica; la realtà nelle zone irrigue di Kandahar, Peshawar o Herat era opposta e il disprezzato dominio straniero vi è stato la norma fino all’entrata nella modernità. Barfield paragona le contese belliche premoderne alle dinamiche per il controllo delle odierne società per azioni: la produzione continua, di solito neppure sfiorata dalle contese in consiglio di amministrazione. Allo stesso modo nell’Afghanistan premoderno la violenza che permetteva di conquistare un territorio diventava autorità legittima grazie a teorie politiche sostenute dalla giurisprudenza islamica: poche barriere separavano la conquista de facto dalla autorità riconosciuta de iure, e il riconoscimento passava dalla citazione del nome del sovrano nella khutba del venerdì e dalla coniazione di monete. Una visione della politica che escludeva del tutto concetti come patriottismo, resistenza o consenso e che vedeva i dominati come puramente passivi, laddove solo alcuni uomini di lignaggio dominante avevano il diritto di competere per il potere, avessero o meno legami con la regione in cui imponevano la propria autorità, contendendoselo per mezzo di truppe mercenarie. Sempre richiamando Ibn Khaldun, Barfield ricorda che queste contese si svolgevano in mezzo a yagistan dominati ora dalle civiltà del deserto e dal loro egualitarismo tribale, che poteva essere superato solo da chi si metteva al di fuori di esso, generalmente assumendo le vesti di religioso, ora da sistemi tribali turco-mongoli fortemente gerarchizzati che potevano in ogni momento entrare nella contesa e che secondo Ibn Khaldun garantivano una longevità dinastica assai superiore alle quattro generazioni che considerava la norma per dominatori afferenti alle civiltà del deserto e al loro lignaggio egualitario. Barfield descrive come in epoca medievale nella regione turco-iranica i dominati fossero ovunque persiani e i dominatori turco-mongoli, ordinati in dinastie longeve. Superiorità bellica, competenze organizzative anche delegate quando necessario, apertura alle altre culture e forte coesione dinastica -non certo esente da lotte per la successione- erano secondo l’A. I punti forti dei dominatori.
Barfield riassume il dibattito storiografico sulle origini dei pashtun, noti per le dettagliate genealogie e convinti assertori della propria precoce conversione all’Islam, e ne rintraccia le prime attestazioni certe al XVI secolo quando l’Afghanistan era diviso da tre grandi imperi retti da dinastie di origine turco-mongola: i Savafidi dell’Iran, i Moghul in India e gli uzbeki della Tansoxiana. La libertà di azione dei pashtun si riduceva secondo Barfield a decidere quale dominatore avrebbe governato il loro territorio; l’origine straniera dei dinasti e le differenze settarie non influivano sulla legittimità politica di un governo, ma i rapporti dei pashtun con i centri imperiali li avvicinarono a nuovi modelli di amministrazione e di organizzazione militare. Vicini ai Safavidi, i pashtun Ghilzai e Abdali espressero così i governatori di città come Herat e Kandahar. Il confronto coi Moghul fu invece secondo l’A. Più conflittuale, al punto che per gli indiani pagare i clan pashtun come mercenari oppure per avere libero accesso al Khyber Pass conveniva più che combatterli. Barfield descrive come Kandahar e Herat si ribellarono ai persiani all’inizio del XVIII secolo e come, scoperta l’inconsistenza militare dei Safavidi, i Ghilzai riuscirono persino a conquistarne la capitale Esfahan nel 1722. Di lì a pochi anni la Persia sarebbe finita in mano ai turchi del Khorasan, che con Nadir Shah prima ripresero il controllo di Hetat e Kandahar e poi mossero guerra ai Moghul alleandosi coi pashtun Abdali. L’assassinio di Nadir, racconta Barfield, avrebbe tolto i pashtun dalla sudditanza; la Persia rimasta senza autorità centrale, i Moghul in pieno declino e la Transoxiana frammentata avrebbero permesso l’edificazione di un Afghanistan indipendente, in cui gli Abdali poterono servirsi delle competenze amministrative acquisite dai Safavidi e che comprese i territori già sotto il controllo di Nadir Shah. Secondo Barfield la jirga, la riunione tra pari che avrebbe portato lo Abdali Ahmad Khan al vertice di quello che sarebbe stato l’impero Durrani (”quelli della Perla”) è stata enfatizzata dalle cronache che volevano Ahmad Khan un prodotto della struttura tribale pashtun e che solo pashtun fossero i suoi sostenitori, laddove la realtà non conferma alcuna delle due cose. Il libro descrive come Ahmad Khan abbia espanso fino all’Amu Darya, a Mashad e a Nishapur i confini dell’impero, arrivando a conquistare Dehli proclamandosi protettore dei Moghul prima di morire nel 1772. Barfield descrive l’impero Durrani come “un cappotto indossato a rovescio”: le zone più ricche erano quelle periferiche e meno controllabili per cui era sempre necessaria una grossa forza militare a controllo centrale, a sua volta dipendente da regolari introiti, ottenuti per lo più tramite saccheggio nel corso di lunghe e frequenti incursioni in India. L’amministrazione locale era affidata a governatori che erano a tutti gli effetti “sovrani di regni in miniatura”, in genere ex nemici sconfitti divenuti vassalli, ancora armati e di dubbia affidabilità; le regioni chiave come Herat e Lahore erano controllate da figli di Ahmad Shah. Barfield rileva che seppure la assimilata tradizione dinastica turco-mongola limitava molto l’accesso legittimo al potere, il numero dei pretendenti legittimi era comunque tale da scatenare continue contese tra le élite Durrani. Inoltre -come confermarono i primi inviati britannici- la limitata cooptazione al potere dei pashtun Ghilzai non sarebbe stata sufficiente ad assicurare il loro rispetto per l’autorità imperiale, motivo per cui il figlio Timur Shah cercò di sottrarsi alla loro influenza spostando la capitale da Kandahar a Kabul, assoldando truppe qizilbash contro le ribellioni, allontanando i Durrani della corte dalle loro truppe, affidando l’amministrazione a individui di bassa estrazione sociale che dovevano tutto a lui ed esercitando un forte controllo sulla spesa. La fragilità dell’impero, scrive Barfield, non premiò questa condotta e alla morte di Timur Shah nel 1793 i figli (i Sadozai) iniziarono una serie di guerre civili che aprì una breccia al potere dei Barakzai, clan Durrani che avevano fornito visir ai loro avversari e conoscevano il funzionamento della macchina statale e le debolezze della dinastia in carica. In ogni caso, conclude Barfield, dopo Ahmad Shah la competizione per il potere rimase limitata alla élite del suo impero, che interiorizzò una concezione gerarchica del potere prima estranea alla realtà pashtun; i contendenti lottavano contro consanguinei, non contro altri gruppi. Solo l’influenza europea avrebbe portato grossi cambiamenti alla situazione. Le guerre anglo-afghane e l’edificazione statale in Afghanistan sono le materie trattate nel terzo capitolo. All’inizio del XIX secolo la competizione per il potere era prerogativa della élite Durrani, la struttura governativa decentrata e frammentata, l’esercito arruolato secondo criteri feudali. Meno di cento anni dopo tutto questo sarebbe stato sostituito da uno stato centralizzato, da un apparato burocratico esteso a tutto il paese e da un esercito moderno, secondo Barfield per conseguenza delle guerre con gli inglesi del 1839-42 e del 1878-80. Invariato rimase il ruolo della élite politica, che anzi uscì rafforzata dai conflitti. Nei primi decenni del XIX secolo, in un impero drasticamente ridotto dalle annessioni dei vicini, le lotte tra Sadozai e Barakzai portarono nel 1818 il Barakzai Dost Muhammad prima a espellere verso l’India il Sadozai Shah Shuja, poi ad assumerne tutte le prerogative nel 1826 ponendo fine all’insediamento di shah di comodo. Barfield nota che la perdita delle province più ricche costrinse Dost Muhammad a una severa politica fiscale e a cercare l’appoggio britannico per riconquistare territori in India. Non riuscì nell’intento, ma l’aiuto britannico gli permise di difendere Herat dai persiani nel 1838. L’agente britannico Alexander Burnes propose Dost Muhammad come “alleato” al posto del mai arreso Shuja; il governatore dell’India Lord Auckland fece l’esatto opposto e cercò di riportare Shuja sul tono afghano sorretto dalle baionette britanniche e indiane. L’invasione britannica lasciò Dost Muhammad a contare su gruppi etnici marginali e di dubbia fedeltà e lo indusse -secondo una diffusa prassi di cui l’A. Ricostruisce le modalità e i motivi- a sottomettersi a William MacNaghten; una scelta che in genere non era vissuta come un fallimento morale, ma come un rischio professionale che poteva servire a rimanere in gioco. Barfield narra di come, intanto che Dost Muhammad attendeva tempi propizi in India, la riorganizzazione dello stato e delle finanze dell’Afghanistan effettuata dai britannici senza e se del caso contro Shah Shuja e senza tenere conto della realtà locale -in cui la “corrosione della corruzione” era in realtà il collante che teneva insieme le istituzioni- minasse gravemente la loro popolarità.
L’A. Nota che i britannici stroncarono le clientele dei capi locali e delle milizie irregolari a cavallo sostituendole con fanterie sotto controllo centrale e inondarono l’economia locale di rupie d’argento di provenienza indiana, indebitando pesantemente la loro colonia e sconvolgendo un’economia di sussistenza. Tolsero potere alla élite feudale e fecero aumentare i prezzi oltremisura per poi ridurre repentinamente le spese scontentando i capi Ghilzai dell’est del paese, la cui ribellione coincise con quella della popolazione di Kabul. Il linciaggio di Burnes e l’attacco agli acquartieramenti britannici costrinsero MacNaghten a negoziare col figlio di Dost Muhammad un ritiro senza condizioni. Della “Armata dell’Indo” su cui infierirono i Ghilzai giunse salvo a Jalalabad un solo componente. Barfield sottolinea come elementi nuovi le giustificazioni religiose e la partecipazione tribale: un sovrano retto dai britannici non venne percepito come musulmano autorevole, e nessun capo tribale osò opporsi a un jihad popolare partito da gruppi marginali che non contestavano la legittimità delle élite e che si opponeva in fin dei conti all’occupazione straniera. Dopo l’assassinio di Shuja il figlio di Dost Muhammad Muhammad Akbar replicò lo stratagemma politico turco-iranico di insediarsi come uomo forte che governava in nome di un capo di stato più prestigioso (nel caso, il figlio di Shuja Fath Jang): i Barakzai evitavano così accuse di usurpazione e -data la compromissione dei Sadozai con gli inglesi- potevano anche parlare a nome dei credenti. Una presa del potere che si consolidò con la fuga degli ultimi esponenti dei Sadozai e il ritorno di Dost Muhammad, che ereditò dai britannici una struttura fiscale migliore e un esercito meglio organizzato. Il divide et impera avrebbe consentito a Dost Muhammad di consolidare il proprio dominio su quasi tutto l’Afghanistan anche grazie ai trattati con gli inglesi -cui riconobbe tacitamente Peshawar, rivolta dei sepoy (1857) nonostante- che all’occorrenza gli fornirono armi e fondi. Barfield constata che la prima invasione britannica aveva profondamente cambiato la situazione militare in Afghanistan diffondendo ovunque armi da fuoco maneggevoli e mettendo il potere centrale in condizioni di dover temere ribellioni da parte di popolazioni sottomesse, non -come era stato fino ad allora- da parte di principi assoggettati. La élite Durrani resse il paese col favore e col denaro britannico, ma lasciare a se stesse le regioni periferiche troppo problematiche non era più possibile, e neppure era possibile continuare con la rudimentale amministrazione adottata da Dost Muhammad dopo la distruzione di quella dei Sadozai. A iniziare l’edificazione dello stato avrebbe provveduto Sher Ali a partire dal 1868, dopo cinque anni di guerre di successione: Barfield nota la razionalizzazione della politica fiscale che permise il mantenimento di un esercito professionale a maggioranza pashtun con la fine del controllo feudale e l’ingresso nell’agenda politica dei temi della modernità, ma anche lo scarso controllo che il potere centrale continuava ad avere sulle comunità tribali.
Dal 1874 con l’affermarsi dell’espansionismo russo in Asia Centrale l’impero britannico adottò col Primo Ministro Disraeli una politica più aggressiva; nel caso la “linea dell’Oxus” non avesse fermato le mire russe l’Afghanistan sarebbe stato trasformato in un protettorato a tutti gli effetti, se non smembrato e inglobato. L’arrivo di una missione russa a Kabul fu il casus belli cercato, per una guerra che Barfield descrive nel suo promettente inizio e nella sua brutta conclusione. Impadronitisi facilmente di Kabul e imposti al successore di Sher Ali Yaqub un trattato di pace, cessioni territoriali e la presenza di un proconsole, i britannici affrontarono in modo draconiano la ribellione di truppe afghane rimaste senza soldo, estromisero Yaqub e tentarono di imporsi con le armi. L’insuccesso li costrinse a manovrare per spartire il paese, prima di ritirarsi nel 1881: l’esperto di battaglie Abdur Rahman insediato al nord finì col prevalere sull’esperto di amministrazione Ayub del sud. Anche in questa occasione, scrive l’A., i pashtun Ghilzai si comportarono da alleati in entrambi gli schieramenti, senza mai considerarsi come possibili governanti.
Barfield descrive come Abdur Rahman, col sostegno britannico, si impegnò poi in una serie di violente campagne interne dirette anche contro le popolazioni, volte a distruggere la precedente struttura statale per governare l’Afghanistan in modo diretto e autocratico a spese soprattutto dei pashtun Ghilzai e dei gruppi non sunniti situati nelle zone più impervie, quale che fosse stato il loro ruolo nella guerra contro gli occupanti inglesi. Abdur Rahman fece costruire una strada che avrebbe consentito ai russi di dirigersi verso l’India evitando le zone vitali del paese, organizzò in modo severo il prelievo fiscale facendo impennare le entrate statali anche a costo di spingere la popolazione ai limiti dell’indigenza e affidò incarichi locali a governatori dimissionabili e senza legami di parentela, dopo aver diviso le province in unità tanto piccole da non poter organizzare rivolte di vasta portata contando su risorse proprie. A trarne beneficio furono solo l’apparato burocratico e quello militare; l’A. Afferma che chiudendo il paese alle influenze esterne e allo sviluppo dell’industria e delle infrastrutture Abdur Rahman si comportò come chi non accumula ricchezze per timore dei ladri. Con gli inglesi formalmente fuori dal paese, Abdur Rahman non dovette giustificare agli occhi dei credenti il fatto che dipendeva comunque dalle sovvenzioni dei faranji, con l’Afghanistan diventato stato cuscinetto. Barfield indica nella cooptazione dei pashtun (contro cui pure si era accanito), nella difesa dell’Islam con l’assunzione del controllo diretto sul clero e sul potere giudiziario e nell’edificazione della macchina statale centralizzata i pilastri su cui Abdur Rahman costruì la propria base politica. Nel bene e nel male, conclude Barfield, con Abdur Rahman l’Afghanistan diventò uno stato unitario retto da un’ammministrazione laica che aveva la precedenza sulla legge religiosa tradizionale e sulle consuetudini. A differenza di tutti i predecessori Abdur Rahman non lasciò alcun soggetto interno che potesse tenere testa al potere centrale. Almeno apparentemente. In realtà gli elementi che Barfield definisce di Longue durée nella vita materiale e nell’organizzazione sociale rimasero intatti anche per la sostanziale chiusura di Abdur Rahman verso la modernità. Kabul, si nota, era diventata il centro del paese solo per esclusione, e la Herat e la Balkh del XV secolo erano stati centri internazionali di cultura e di commercio molto superiori. Estraneo alla cultura delle autocrazie, l’Afghanistan restava caratterizzato da un centro e da regioni distinte dotate di élite politiche proprie; un sistema che proteggeva le regioni dall’eventuale collasso del potere centrale e che tornò a funzionare dopo qualche generazione. Barfield sottolinea come i governi di Kabul abbiano imitato per oltre un secolo questo emiro di ferro, facendo per lo più una brutta fine.
I successori di Abdur Rahman, scrive l’A. In L'Afghanistan nel XX secolo, ebbero difficoltà a mantenere “lo spaventoso livello di supremazia statale” imposto da lui al paese; una supremazia che non si rivelò adeguata a confrontarsi con le necessità del ventesimo secolo. L’A. Esamina la formazione di una nuova -ma ridotta e isolata- élite urbana favorevole alle riforme, circondata da un paese che vedeva con sospetto ogni cambiamento. La élite pashtun Muhammadzai reclutata a Kabul da Abdur Rahman avrebbe partecipato alla vita politica del paese per tutto il secolo a venire e fino al 1973 avrebbe rappresentato per intero il ceto istruito dell’Afghanistan. La storia afghana del XX secolo viene ripartita da Barfield in tre periodi. Quello dal 1901 al 1929, quello dal 1929 al colpo di stato del 1978, quello dal 1978 al 2001. I problemi di fondo, scrive Barfield, rimasero comunque gli stessi, sempre legati al cambiamento sociale e alla sua direzione.
L’A. Riferisce che con la salita al trono di Habibullah nel 1901 arrivarono per la prima volta in un paese a lungo tagliato fuori dal mondo esterno nuove idee sia secolari che religiose, portate da esuli richiamati dal sovrano. Uniti dal sentire antibritannico, nazionalisti e modernisti asserivano la necessità di modernizzare il paese per contrastare l’Occidente, i partiti religiosi sostenevano la solidarietà panislamica. La contrapposizione fra “giovani afghani” e formazioni islamiche si sarebbe rispecchiata in una diversa influenza delle due fazioni sulla corte e sul paese. Il libro nota che Habibullah riuscì a inimicarsi entrambe le fazioni: esortò al jihad nel 1907 contro l’accordo anglorusso concluso senza minimamente consultare gli afghani e già l’anno dopo fece reprimere il movimento jihadista nel timore che la situazione gli sfuggisse di mano; al tempo stesso represse un movimento segreto costituzionalista che puntava all’abolizione della monarchia e durante la prima guerra mondiale dichiarò neutrale l’Afghanistan nonostante l’orientamento filoturco di tutto lo establishment. Il potere in Afghanistan, sottolinea Barfield, almeno dai tempi di Dost Muhammad inveiva in pubblico contro l’intromissione britannica ma di fatto si comportava in modo opposto. La vittoria britannica contro l’Impero Ottomano e l’occupazione cristiana dei luoghi santi dell’Islam fecero deflagrare l’opposizione interna; Habibullah venne criticato per non aver chiesto almeno la piena indipendenza del paese in cambio della neutralità, e la fazione modernista e nazionalista iniziò a guardare all’Unione Sovietica. Barfield scrive che l’assassinio del sovrano durante una battuta di caccia nel 1919 è ancora oggi una materia oggetto di mere congetture, e che il fratello Nasrullah ne prese il posto in un contesto sempre refrattario agli accordi da gentiluomini; contro di lui, pur popolare tra gli ulema e le popolazioni di confine, insorse il nipote modernista Amanullah. Barfield ricorda l’elemento nuovo che consentì ad Amanullah di imporsi immediatamente -la concentrazione di mezzi e di effettivi nella capitale- ed esamina le vicende delle ostilità contro i britannici iniziate dal nuovo sovrano. Due trattati nel 1919 e nel 1921 fecero dell’Afghanistan uno stato sovrano a tutti gli effetti, e il difensore dell’Islam in Asia Centrale. Un periodo brevissimo cui posero fine i sovietici con la conquista di Khiva e di Bukhara e i turchi con l’abolizione del califfato. Barfield scrive che le riforme calate dall’alto che Amanullah varò nel 1923 (costituzione, abolizione della schiavitù, istruzione femminile, tassazione in contanti, leva obbligatoria universale, documenti di identità, contrasto alla poligamia e ai matrimoni precoci...) suscitarono rivolte immediate -specie nelle zone pashtun- contro uno stato accusato di interferire nella vita comunitaria e familiare tramite leggi che peraltro non aveva nemmeno i mezzi per imporre. Dopo una loya jirga ricca di disconferme Amanullah abrogò le riforme invise ai religiosi, ma la rivolta (capeggiata da Abdul Karim) venne domata a fatica e l’invincibilità militare di Kabul ne venne seriamente messa in discussione. Barfield descrive come negli anni successivi Amanullah avrebbe ripristinato le riforme invise e -al rientro da un dispendioso viaggio in Europa- avrebbe anzi inasprito la propria campagna di modernizzazione forzata chiudendo anche i contatti con le istituzioni religiose e vietando ai funzionari governativi l’appartenenza agli ordini sufi. L’attacco al nucleo centrale dell’opposizione conservatrice tolse all’emiro le simpatie di molti modernisti: per quanto pervasive e tumultuose, le riforme non scalfivano l’essenza autocratica del governo e avevano richiesto una politica fiscale vessatoria. Cercare la collaborazione degli ulema con la promessa di “annullare le riforme più incendiarie” non fermò una nuova rivolta che portò brevemente al trono il tagiko Habibullah. Barfield sottolinea come elementi nuovi l’abdicazione di Amanullah e le origini oscure del nuovo regnante, che alla fine del 1929 venne deposto e ucciso da una formazione di combattenti waziri pashtun e sostituito da Nadir Khan, confermato come emiro da una jirga a conferma di un’ulteriore rottura con la consuetudine della élite dinastica. Una rottura rafforzata dal fatto che i Musahiban (ramo collaterale dei Muhammadzai) che sostituirono i discendenti di Dost Muhammad ripresero il titolo di shah abbandonato dopo i Sadozai. L’A. Scrive che nella contesa tra l’autoesiliatosi Amanullah e il nuovo shah ebbe per la prima volta importanza la stampa, e che una loya jirga convocata nel 1931 sancì la deposizione di Amanullah. I Musahiban avrebbero preservato per quarant’anni la stabilità interna dell’Afghanistan introducendo cambiamenti sociali limitati e graduali accompagnati dallo sviluppo economico e ricorrendo come fonte di entrate alle imposte sul commercio e ai monopoli di stato, detassando gradualmente il mondo agricolo e l’economia di sussistenza. I successi ottenuti consentirono a Zahir Shah (succeduto al padre assassinato nel 1933) di far passare gradualmente in secondo piano le istituzioni religiose e i loro esponenti, al punto che negli anni Settanta la loro capacità di mobilitazione popolare era diventata minoritaria. Barfield descrive come i familiari di Zahir Shah si fossero avvicendati come primi ministri fino a quando la costituzione del 1964 non vietò gli incarichi ministeriali ai membri della famiglia reale, finché il successivo golpe incruento operato da Daud Khan nel 1973 non rese comunque evidente la preminenza dei Musahiban nello establishment.
Barfield descrive a questo punto uno Afghanistan stagnante, in condizioni preoccupanti sotto il punto di vista dell’alfabetizzazione e con una Kabul che faceva da banco di prova per le riforme ma che non era affatto lo specchio della vita reale nel resto del paese. I Musahiban limitarono le riforme a una élite urbana che le richiedeva e ridussero questioni come quella dello hijab a un problema di stile, scollegato da quello dei diritti delle donne. La modernizzazione del paese passò invece dalla fondazione di due banche, dall’industrializzazione della produzione di cotone nel nord del paese, dallo sviluppo della produzione agricola e di quella del pellame; nella carenza di infrastrutture di ogni tipo l’economia nazionale rimase comunque alla sussistenza. Anche per semplici beni di consumo alla fine degli anni Cinquanta l’Afghanistan riusciva a coprire solo il dieci o il quindici per cento della domanda; un quadro che alla fine degli anni Ottanta sarebbe stato più o meno lo stesso. L’A. Rileva che i Musahiban riuscirono a ottenere nuovamente finanziamenti esteri dopo la seconda guerra mondiale, destinati alla modernizzazione dell’esercito (dal 1950) alla rete stradale (dal 1960) e all’istruzione (dal 1970). Col crollo delle entrate derivanti dalle mai adeguate aliquote della tassazione interna, sovvenzioni e prestiti costituivano nel 1973 i due terzi delle entrate. Utile anche a questo proposito fu secondo Barfield una competenza in politica estera praticamente proverbiale, con la ricerca di mecenati lontani dalle frontiere e l’attenzione a non rimanere coinvolti nel secondo conflitto mondiale, con le cui conseguenze i Musahiban dovettero comunque fare i conti nel 1947. La fine della presenza britannica in India li spinse a cercare la protezione statunitense e a rivendicare i territori pashtun pakistani. Il disinteresse degli USA -già impegnati a favore di Iran e Pakistan- spinse l’Afghanistan a rivolgersi ai sovietici per la modernizzazione dell’esercito, da secoli la priorità assoluta del governo afghano nelle relazioni con le potenze amiche. Barfield constata come l’Afghanistan riuscì ad avere infrastrutture e una qualche base industriale mettendo URSS e USA in competizione tra loro, sia pure al prezzo di rendere il paese fortemente dipendente dagli aiuti esteri. Nella modernizzazione del paese finalmente avviata dopo il 1950 i Musahiban finirono per rimanere vittime degli stessi gruppi di interesse che avevano contribuito a creare: esercito e amministrazione finirono per considerarsi strumenti del potere statale a prescindere da chi vi ricopriva cariche e l’aumentato livello di istruzione diversificò molto i gruppi politici e le correnti di opinione. E proprio appoggiandosi a queste nuove forze politiche dalle alte aspettative per il futuro, anziché sui religiosi o sui gruppi tribali, Daud Khan poté rovesciare Zahir Shah nel 1973 e instaurare una repubblica. L’A. Descrive lo sviluppo degli opposti attori delle organizzazioni islamiche e di quelle comuniste. Le prime gravitanti sulla facoltà di legge, le seconde nell’esercito addestrato dai sovietici (il Khalq, pashtun di origine tribale) e nella burocrazia (il Parcham, di lingua farsi e legato alla élite Musahiban). La numerosità dei gruppi era minima e il loro radicamento rurale nullo, ma Barfield nota che la loro capacità di svolgere un ruolo politico nella capitale era rilevante, e che tanto sarebbe stato sufficiente per poter mettere le mani sulla macchina statale e usarla per i rispettivi scopi. Il Parcham avrebbe sostenuto Daud nel 1973 mostrando come in Afghanistan anche chi si puntava alla rivoluzione socialista non riusciva a mostrarsi immune dal prestigio dinastico. Daud ne ringraziò gli esponenti prima inviandoli fuori da Kabul e quindi bandendo il Parcham nel 1975, anno in cui esiliò la maggior parte degli islamisti dopo la scoperta di un complotto militare e alcune insurrezioni soffocate senza problemi. Ex ministro noto a tutti e lontano da tentazioni radicali, Daud non incontrò nel suo colpo di stato alcuna resistenza popolare. Si ispirò all’Iran organizzando uno stato monopartitico e una pervasiva polizia segreta, riducendo la dipendenza militare dell’Afghanistan dall’URSS, prima di finire ucciso in un colpo di stato nel 1978. Barfield descrive l’Afghanistan di questi anni sottolineando ancora una volta le profonde differenze tra la capitale e il resto del paese ma anche il crescente impatto (non sempre positivo) delle nuove infrastrutture, dalle strade alle dighe, e dei comportamenti di consumo stimolati dalla diffusione di merci. Nelle campagne le amministrazioni di Kabul convivevano tacitamente con le entità tribali o di villaggio, e la loro incisività variava a seconda della regione e dell’etnia risultando massima tra i pashtun e minima tra gli hazara. Durante la propria permanenza in Afghanistan negli anni Settanta Barfield notò la nulla connessione organica tra la popolazione e apparati governativi costretti ad avvalersi di intermediari locali tutt’altro che benvoluti dalla gente. La leadership locale era costituita da proprietari e commercianti autorevoli per ricchezza, rango sociale e reti politiche, che soprattutto da anziani avevano una reputazione di buonsenso e onestà che ne faceva mediatori ricercati nelle liti, stante la nulla fiducia nel sistema giudiziario. Barfield poté verificare che le zone non pashtun erano accomunate dalla diffidenza per il potere centrale, che ogni ministero aveva linee proprie che non collaboravano con quelle degli altri e che per un vero baratro separava fa vari punti di vista i funzionari da una popolazione che li considerava obesi, prepotenti e corrotti per natura. Il governo centrale risultava efficiente solo negli obiettivi specifici, con particolare riferimento alla repressione armata, e lasciava che i funzionari navigassero a vista limitandosi al controllo dello status quo. Una situazione che il colpo di stato del 1978 ad opera del Khalq del Partito Popolare Democratico dell’Afghanistan avrebbe stravolto.
Barfield descrive come il Khalq (il PDPA) avrebbe eliminato con la violenza di chi non può neanche concepire un compromesso il Parcham, i proprietari, il clero islamico, i vecchi quadri dell’esercito e sostituito la élite di lingua farsi dei Muhammadzai con i pashtun Ghilzai. Alle epurazioni esterne e interne il Khalq associò il lancio di programmi socioeconomici radicali nelle campagne, convinto che la forza militare bastasse a soffocare ogni rivolta come ai tempi dei Musahiban, che di fatto dovevano invece la propria lunga fortuna alla scarsa impronta lasciata fuori da Kabul. In meno di due anni le ribellioni a programmi governativi mal ideati e peggio messi in pratica dalla burocrazia dei Musabihan i cui soli quadri erano stati sostituiti da una compagine che faceva vanto del proprio laicismo inimicarono al Khalq l’intero Afghanistan, dove vigeva la convinzione che “un governo non islamico non avesse alcuna autorità legale e che un musulmano avesse il diritto, perfino il dovere, di ribellarsi a esso”. LA. Sottolinea che a differenza del predecessore Amanullah, il Khalq aveva intrapreso riforme molto più radicali e soprattutto si era legato all’Unione Sovietica, che non era disposta ad accettare il crollo di un governo socialista. Il 24 dicembre 1979 l’URSS invase l’Afghanistan, eliminò il leader del Khalq Amin (accusato di “deviazionismo di sinistra” e percepito come poco affidabile) e lo sostituì con Karmal, che fu costretto a ritirare le iniziative peggio accolte, prima tra tutte la riforma agraria, in modo da allargare la base del consenso. L’intervento sovietico mobilitò una opposizione di massa di cui Barfield descrive le caratteristiche interetniche di uno jihad contro gli invasori; Islam e nazione, nota, erano indistinguibili dai tempi di Abdur Rahman. L’elemento nuovo sarebbe stato dato dal ruolo guida assunto dai partiti islamici in esilio in Pakistan dopo l’opposizione a Daud, gli unici in grado di organizzare e gestire gli indispensabili aiuti stranieri provenienti per lo più da USA e Arabia Saudita. I legami clientelari, di etnia, di clan o di puro interesse -continua Barfield- favorirono il radicarsi tra le genti del nord e dell’ovest dell’Afghanistan del Jamiat-i-Islami di Burhanuddin Rabbani; i pashtun del sud e dell’est si affiliarono in genere allo Hezb-i-Islami di Gulbuddin Hekmatyar, ma alla contesta partecipavano altri partiti minori guidati da esponenti di famiglie sumi o da semplici ulema e non era infrequente che almeno i comandanti fossero affiliati a due o anche tre formazioni. Il piano sovietico, scrive Barfield, era quello di dimostrare la solidità dell’esecutivo costringendo le fazioni ostili a venirvi a patti, e mostrare alla comunità internazionale che l’URSS non abbandonava gli alleati. Per questo il paese venne presidiato da centoundicimila uomini (quindicimila i caduti in dieci anni), l’esercito afghano armato e riorganizzato, le condanne dell’ONU ignorate. La lunga occupazione e la corrispondente guerriglia devastarono come mai prima le campagne e le regioni isolate facendo crescere la popolazione urbana e rendendo gran parte della popolazione dipendente dagli aiuti alimentari. Dopo il 1986, con Najibullah al posto di Karmal e Gorbaciov al posto di Breznev, la politica ufficiale divenne quella degli accomodamenti con i gruppi resistenti perseguita già da anni a livello locale dai comandanti afghani. Najibullah ribattezzò il PDPA Hezb-i-Watan e passò a un’ideologia nazionalista cercando di ampliare la base del consenso in vista del ritiro sovietico; la sua offerta di ministri chiave a esponenti della resistenza lo rese a Iddio spiacente e agli inimici sui. Barfield indica come i comandanti sul terreno arrivarono a creare protogoverni in alcune regioni senza e magari contro i vari Rabbani e Hekmatyar, impegnati oltremodo a tenere insieme le rispettive coalizioni. Nonostante gli accordi promossi dall’ONU avessero impegnato USA e URSS a cessare le forniture militari dopo il ritiro sovietico ultimato nel febbraio 1989, entrambi continuarono a farlo in previsione di un rapido crollo delle forze governative; la sconfitta dei sette partiti in esilio in Pakistan a Jalalabad nel marzo 1989, in un attacco promosso dai servizi segreti pakistani e inteso come un primo passo verso la conquista della capitale, dimostrò i limiti della guerriglia e le capacità del governo afghano.
Barfield nota che tutti gli schieramenti dipendevano dall’estero e che i combattenti afghani si trovarono risucchiati nella guerra fredda e al tempo stesso anche nella lotta condotta dai salafiti sauditi per fare della guerra in Afghanistan l’inizio di un jihad transnazionale che avrebbe dovuto portare a rivoluzioni islamiche nel mondo sunnita. Uno scontro che i finanziatori consideravano manicheo, ma che in Afghanistan veniva considerato da altri punti di vista a cominciare da quello delle controversie personali e degli interessi privati. La consuetudine, rileva l’A., divenne quella di ripartire i rischi per una comunità schierandone i membri in campi rivali; al tempo stesso le contrapposizioni iniziarono a sfumarsi al punto che dopo il ritiro sovietico Najibullah poté ritrarsi come buon nazionalista in grado di proteggere il paese e i suoi interessi con più coerenza delle controparti di Peshawar. Secondo Barfield Najibullah riprese la strategia degli emiri finanziati dai britannici: il continuo aiuto sovietico gli permise di costruire reti clientelari e di mantenere un forte esercito con cui cercare di mantenere il controllo del paese in cui per la prima volta fu Kabul a decentrare il potere alle regioni dell’Afghanistan. In questo decentramento, Najibullah privilegiò il nord confinante con quella Unione Sovietica cui doveva l’esistenza del proprio potere e popolato da minoranze in cattivi rapporti con i pashtun. Nel 1990, nota Barfield, i capi delle formazioni islamiche a Peshawar erano nella difficile posizione di dover rinunciare agli aiuti statunitensi e di dover subire pressioni da un Pakistan che voleva vedere a Kabul un esecutivo islamico guidato da Hekmatyar; a suo dire i britannici avrebbero consigliato gli statunitensi di puntare su Najibullah. Che il crollo dell’URSS lasciò invece senza risorse, e impegnato in un processo di transizione in cui le fazioni si riallinearono in base a fattori regionali ed etnici: i pashtun con Hekmatyar, le minoranze uzbeke e ismailite del nord con i tagiki di Massud. Anche se Massud prese Kabul prima di Hekmatyar, sottolinea Barfield, il governo comunista non era stato sconfitto, ma riorganizzato, con la diserzione delle sue varie componenti verso le fazioni della resistenza. In quelle condizioni Massud avrebbe potuto costituire un esercito in grado di tenere il paese e di integrare le forze del precedente governo; tuttavia preferì lasciare la formazione del governo ai leader dei sette partiti di Peshawar che “si lanciarono su quell’opportunità come cani affamati” costruendo uno Stato Islamico dell’Afghanistan che era “un guscio vuoto” di scarsissimo seguito e affannandosi a ribadire che il vecchio Zahir Shah, dalla legittimità ancora temuta, non avrebbe dovuto svolgervi alcun ruolo. Nei tre anni successivi il “presidente” Rabbani fu assediato a Kabul dal “primo ministro” Hekmatyar e dal suo alleato uzbeko (ed ex comunista) Dostum. L’A. Nota che in una contesa potenzialmente aperta a tutti si trovavano alla ribalta personaggi che appartenevano a gruppi fino a quel momento emarginati e che ora avrebbero dovuto prendere il potere prima di poter legittimare il loro diritto a farlo e soprattutto potendo contare su pochi o nessun aiuto dall’esterno. I principali contendenti erano Rabbani, Massud e Hekmatyar. Barfield descrive le condizioni del paese nel 1993, notando le considerevoli differenze tra Kabul distrutta e le province più o meno in grado di garantire lo svolgersi della vita civile, in cui parevano rivivere modelli di governo ottocentesco adattati alla nuova situazione dal momento che chi lottava per il potere a Kabul non aveva una consistente base territoriale. Gli afghani erano riusciti molte volte a sbarazzarsi degli occupanti stranieri rendendo il paese ingovernabile; Barfield constata che alla fine del XX secolo l’ingovernabilità era una minaccia per lo stesso Afghanistan, e la paragona a una malattia autoimmune che lasciava il paese vulnerabile agli attacchi opportunistici. Come quello dei talebani.
Barfield esamina le condizioni che hanno portato all’affermazione del movimento talebano, nato dalla corrente sunnita Deobandi nelle moschee del Pakistan, alla presa del potere nel paese vicino. Capeggiato da leader religiosi e formato per lo più da profughi, il movimento talebano presentò un obiettivo idealistico a giovani che non avevano nulla con cui confrontare la reazionaria visione islamica che gli veniva proposta. Barfield riporta la versione di fonte talebana per cui nel 1994 il movimento sarebbe riuscito a impadronirsi facilmente di Kandahar e poi della provincia di Helmand con l’aiuto pakistano e corrompendo i leader militari locali, promettendo la fine del caos. A differenza di movimenti analoghi di durata effimera, quello talebano non venne osteggiato da un governo centrale e tanto meno da una forza militare coerente: oltre che sul vitale aiuto pakistano i talebani poterono contare su specialisti (piloti, meccanici) del Khalq pashtun come loro e in pochi mesi cacciarono Hekmatyar dalle posizioni di assedio a Kabul. Respinti da Massud, riuscirono comunque ad avvalersi dei disaccordi in campo nemico per assicurarsi l’Afghanistan occidentale e sudoccidentale prima di entrare a Jalalabad nel settembre del 1996 e di aggirare la capitale, da cui Massud si allontanò mantenendo intatte le proprie forze. L’Alleanza del Nord organizzata da Massud sarebbe riuscita a sconfiggere pesantemente i talebani a Mazar-i-Sharif, costringendoli a ricorrere a numerosi combattenti non afghani. La vendicativa presa di Mazar-i-Sharif e di Bamiyan nel 1998 li avrebbe lasciati padroni del paese, con l’eccezione del nord est rimasto a Massud.
Barfield nota che la politica talebana divenne rapidamente impopolare, perché basata su “una rozza combinazione di Islam salafita e di pashtunwali” spesso apertamente ostile alle usanze locali, e fatta rispettare con una intransigenza ignota da molte generazioni. Barfield riporta che alcuni eruditi egiziani impegnati nel cercare di evitare la distruzione dei Buddha di Bamiyan nel 2001 riscontrarono nei loro interlocutori una competenza sommaria, dovuta anche all’ignoranza della lingua araba. Tra gli afghani in generale invece sarebbe stata diffusa la convinzione che la loro pratica dell’Islam fosse già intrinsecamente superiore a quella altrui, e che non richiedesse quindi cambiamenti. Ad aumentare l’impopolarità dei talebani la loro ascendenza pashtun, l’assenza di un nemico esterno, l’eccessiva dipendenza dal Pakistan e dai molti arabi di al Qaeda. In politica internazionale il loro esecutivo fu riconosciuto solo dal Pakistan, rimasto l’unico paese donatore insieme con l’ONU. Nonostante la nulla considerazione dei talebani verso la libertà di religione e i diritti delle minoranze, i rapporti con l’ONU sarebbero stati mantenuti tramite continui e informali compromessi dal momento che nessuno in Afghanistan sarebbe potuto rimanere al potere senza quel discreto e incessante flusso di aiuti. L’ONU, secondo Barfield, avrebbe garantito il minimo vitale alle aree in cui i talebani erano più odiati, ma anche la base necessaria per consentire loro di continuare una guerra civile in cui sarebbero riusciti ad alienarsi ogni possibile alleato. In pochi anni Kabul arrivò a un passo dalla guerra con l’Iran, attirò le ire e i missili statunitensi dopo che nel 1998 due ambasciate erano state oggetto di attentati in Africa orientale, aprì una crisi con l’Arabia Saudita dopo aver rifiutato di espellere Osama Bin Laden, ne aprì un’altra con l’India con un dirottamento aereo, un’altra ancora con la Russia riconoscendo la Cecenia (i russi continuarono a sostenere Massud al nord) e infine una col Giappone distruggendo i Buddha di Bamiyan. Secondo Barfield il capo del movimento talebano noto come Mullah Omar era animato da una visione puritana analoga a quella di Cromwell; il suo attivismo si traduceva nell’ospitalità per gruppi analoghi costituiti da arabi, da ceceni, uzbeki, indonesiani, uiguri e altri, rappresentanti una generazione di attivisti che vedevano nell’Afghanistan il luogo in cui una superpotenza era stata sconfitta e che avrebbero cercato di replicare il successo dei talebani nei rispettivi paesi. Tutte organizzazioni che portavano fondi e servivano come truppe d’assalto, ma che lo stato fallimentare Afghanistan non poteva controllare. Barfield descrive i talebani come caratterizzati da un forte etnocentrismo e da una visione del jihad come limitato a un solo paese; reduci da decenni di guerra, poco o nulla pratici della lingua araba e non disposti ad attentati suicidi e all’accanimento contro i civili, pochi afghani avrebbero aderito a organizzazioni internazionali come al Qaeda e all’anelito trotzkista di Bin Laden.
Nel 1998, nota l’A., la presenza di Bin Laden in Afghanistan sarebbe diventato il principale motivo dell’ostilità internazionale contro i talebani. Il mullah Omar si sarebbe trincerato dietro l’obbligo di ospitalità previsto dal pashtunwali che avrebbe impegnato l’ospite ad accettare l’autorità dell’ospitante. I governanti afghani più esperti avevano sempre fatto in modo che la protezione concessa a combattenti stranieri non mettesse in pericolo il paese; gli eventi del settembre 2001 -in cui uomini di Bin Laden prima uccisero Massud e poi attaccarono gli USA- indicano che i talebani non riuscirono a seguirne l’esempio. Barfield riassume gli eventi dell’invasione statunitense notando che i talebani subirono, da sconfitti, gli stessi fenomeni e le stesse prassi di cui si erano serviti nella loro ascesa. “Dopo la caduta di Mazar vennero visti come dei perdenti, e i loro alleati nominali si affrettarono ad abbandonarli. Del resto, si trattava di una scelta facile: gli Stati Uniti, la patria delle banconote da cento dollari, pagavano le defezioni distribuendo camionate di soldi, e minacciavano gli elementi più recalcitranti assestando colpi devastanti con le loro bombe di precisione”. Il mullah Omar e Bin Laden si sarebbero salvati a stento e la popolazione afghana avrebbe considerato gli occupanti stranieri come un baluardo contro la ripresa della guerra civile e contro il ritorno dei signori della guerra.
Nel quinto capitolo su l’Afghanistan del XXI secolo Barfield esordisce constatando che gli USA invasero un paese in cui la macchina statale aveva da tempo cessato di funzionare e in cui a differenza del passato non esisteva a Kabul una élite politica clientelare da sostenere. In questo vuoto la presenza militare, il ripristino dei flussi di aiuti e il rapido rientro di milioni di profughi avrebbero fatto ben sperare: per la prima volta sarebbe stato eletto un leader nazionale nella persona di Hamid Karzai. A porre problemi invece il fatto che fossero i finanziatori a imporre priorità nei progetti, cui adibivano per lo più da personale straniero in un paese di disoccupati. Nonostante tutto, spiega Barfield, dopo l’invasione statunitense nessuna profezia pessimista pareva sul punto di realizzarsi. I non pashtun soprattutto ben accolsero gli invasori, non avendo tollerato le interferenze pakistane e quelle degli stranieri ospitati dai talebani. L’A. Sottolinea che come -secondo quanto successo altre volte nella storia del paese- uno straniero non confinante fosse meglio tollerato, specie nell’attesa che risolvesse problemi altrimenti inaffrontabili. Stato fallito non significa nazione fallita: Barfield nota il forte senso di unità nazionale formatosi nella guerra contro i sovietici e con l’esperienza dei profughi in Iran e in Pakistan. Il non aver mai collegato l’appartenenza etnica al nazionalismo, la relativa sicurezza di ciascun gruppo etnico nella propria regione che permetteva la cooperazione a livello nazionale, le conseguenze negative di una divisione che avrebbero pesato più delle dispute interne e l’importanza piuttosto relativa data alla politica statale sono indicati dall’A. Come i quattro motivi fondamentali che avrebbero impedito la disgregazione del paese.
Barfield espone i profondi cambiamenti sociali che i milioni di profughi portarono rientrando nel paese, con un aumento vertiginoso della popolazione urbana e un pari aumento delle aspettative verso un potere centrale sempre disattento verso province amministrate in modo per lo meno discutibile, che riproposero però la spaccatura tra modernisti a Kabul e conservatori nel resto del paese. I giovani comandanti militari delle province che avevano sostituito i khan proprietari terrieri e che avevano consentito agli USA di invadere il paese voltando le spalle ai talebani erano sostenuti dalla popolazione locale, disposta a sorvolare sui loro eccessi, e si aspettavano di avere un ruolo nel nuovo governo; Barfield sottolinea i problemi che questo avrebbe comportato per la costruzione di una struttura centralizzata, anche perché gli USA non avevano seguito gli esempi del passato e avevano invaso il paese senza provvedere in anticipo a un candidato per la carica suprema. L’ONU avrebbe convocato a Bonn una conferenza nel novembre 2001 per definire la struttura di un governo provvisorio con rappresentanti del Fronte Unito, i vecchi monarchici romani di Zahir Shah, i mujaheddin esiliati a Peshawar e una piccola rappresentanza pashtun, da cui sarebbe emerso uno Hamid Karzai legato alla vecchia dinastia Durrani. Barfield ricorda le migliori competenze amministrative per cui i Durrani erano famosi, laddove dai Ghilzai era storicamente venuta la maggior parte dei capi militari, e ripercorre la storia contemporanea dell’Afghanistan ricostruendo il diverso ruolo avutovi dagli esponenti dei due gruppi, esemplificati rispettivamente da Hamid Karzai e dall’avventato Abdul Haq, rientrato come Karzai in Afghanistan nell’imminenza dell’invasione statunitense ma rapidamente eliminato dai talebani. Karzai disponeva di istruzione, competenze linguistiche, raffinatezza culturale ed esperienza del mondo esterno tali da consentirgli per lo meno di attirare l’attenzione internazionale. Dopo decenni di guerre nessuna fazione aveva intenzione di impegnarsi in altri scontri nel caso si potesse arrivare a un compromesso, e neppure di smembrare il paese. Di qui l’accettazione di un presidente pashtun da parte del Fronte unito, che rappresentava i gruppi etnici del nord. L’A. Sottolinea come il ricorso a una loya jirga che sancisse il diritto di Karzai a governare presumesse una tradizione inventata e una forzatura: il diritto a governare in Afghanistan non era mai dipeso da una approvazione assembleare, e quando convocate le stesse assemblee erano sempre servite solo ad approvare o meno i provvedimenti del regnante. La legittimazione di Karzai e di un governo provvisorio per due anni avvennero comunque con una “loya jirga d’emergenza” nel giugno del 2002, nel corso del quale i tempi e i modi con cui l’anziano ex re Zahir Shah fu convinto a sostenere Karzai resero chiaro a tutti che gli USA vi avevano imposto le proprie scelte. L’anno successivo un’altra loya jirga di cinquecento membri (donne comprese) avrebbe elaborato la costituzione di una repubblica presidenziale centralizzata, gradita alla “comunità internazionale”: la nomina dei governatori, il diritto di tassazione e la fornitura di servizi statali rimanevano monopolio del governo centrale, affidato a un presidente di ampia autorità secondo un assetto vicino a quello di una monarchia. Il parlamento avrebbe nominato i funzionari governativi, alle province e ai distretti sarebbero stati accordati organismi locali. I diritti delle donne (”storico campo minato”, scrive Barfield) figuravano come riconosciuti indirettamente. Al voto, palese, andò solo la bozza definitiva della costituzione. “Alcuni critici obiettarono che la copia stampata differiva da quella approvata per acclamazione, ma a quel punto l’assemblea era già stata sciolta”.
L’apice del successo per il processo costituzionale, scrive Barfield, sarebbe stato toccato nel 2004 con le elezioni presidenziali; consultazioni partecipate che nessuno riuscì a disturbare, e relativamente corrette. Quattro i candidati più seri tra i diciotto andati al ballottaggio; Karzai, Qanuni (un tagiko del Fronte unito), Dostum (uzbeko) e Mohaqiq (hazara, sciita). Il 56% di otto milioni di voti espressi sarebbe andato a Karzai, con gli altri candidati che avrebbero ottenuto voti solo dai gruppi di appartenenza. L’A. Sottolinea come il rapporto tra elezioni (più o meno) corrette e legittimità politica in Afghanistan non fosse scontato: la consultazione offriva ai vincitori solo l’occasione per legittimarsi tramite le loro scelte future. Nel 2005 Karzai avrebbe invece obbligato i candidati alle elezioni parlamentari a candidarsi a titolo individuale e rifiutò di riconoscere giuridicamente i partiti; con un sistema uninominale secco il voto si polverizzò riducendo la legittimità del parlamento, che divenne in ogni caso sede dell’opposizione politica all’amministrazione Karzai.
Barfield ritiene che la comunità internazionale non abbia compreso la realtà politica del paese e che abbia promosso un leader i cui difetti vennero amplificati dall’assetto governativo, organizzato secondo un modello centralizzato nonostante gli acclarati fallimenti. I detrattori furono derubricati a sostenitori dei “signori della guerra”, mentre i signori della guerra quelli veri -i comandanti delle milizie regionali- vennero lasciati al loro posto o cooptati a Kabul come ministri. Il sistema giudiziario pullulava di estimatori dei talebani e Karzai, per nulla interessato a costruire istituzioni stabili a prescindere dalla leadership, costruì e mantenne una rete clientelare e imponeva senza consultare l’elettorato i propri governatori provinciali, cambiandoli di destinazione solo quando le lamentele nei loro confronti si facevano troppo numerose. Ripercorrendo la storia afghana Barfield nota che la figura archetipica era quella del leader forte e autocratico, e che altrettanto archetipica era la figura del leader di facciata imposto dagli interventi stranieri: debole durante la permanenza, più forte al momento del ritiro dal paese. Una figura autocratica nel 2001 si sarebbe imposta alla comunità internazionale anziché aspettarne la nomina, rassegnandosi all’esilio se le cose fossero andate male. Karzai invece avrebbe mostrato fin da subito “una preoccupante incapacità di prendere decisioni difficili e di difenderle difronte all’opposizione” che lo avrebbe spesso portato alla rinuncia o a compromessi umilianti, mentre la sua evidente dipendenza dalle armi e dal denaro statunitensi lo rendeva ancora più debole: secondo l’A. L’ambasciatore statunitense Khalilzad -già presente alla estromissione di Zahir Shah- trascorse il proprio mandato comportandosi da proconsole più che da diplomatico. In capo a pochi anni la popolarità di Karzai sarebbe crollata sia sul piano interno che su quello internazionale, ed egli avrebbe retto al potere solo perché gli avversari non erano in grado di accordarsi su come sostituirlo. Non venne meno il problema della dipendenza dalle sovvenzioni straniere, che storicamente erano sempre arrivate solo se l’Afghanistan appariva abbastanza importante o abbastanza pericoloso da giustificarle. Karzai dipendeva dagli USA e dagli altri paesi occidentali, la cui presenza militare fu inizialmente ben accetta col tacito patto che fosse accompagnata da un’assistenza economica che il governo avrebbe dovuto usare per migliorare la vita della gente comune. Barfield scrive che l’Afghanistan avrebbe avuto bisogno della presenza di truppe di occupazione in tutte le province, di massicci investimenti in agricoltura e di grossi miglioramenti nelle infrastrutture, e descrive il triplice fallimento conseguito. Impegnati nell’aggressione all’Iraq, gli USA avrebbero lasciato nel 2002 settemila soldati cui si sarebbero aggiunti i cinquemila dell’ONU, diventati rispettivamente ventimila e diecimila per le elezioni del 2004 e per la prima volta stanziate fuori da Kabul per lo più in aree filogovernative, col resto del paese lasciato a se stesso. Negli stessi anni la gestione diretta delle iniziative da parte dei donatori stranieri tolse al governo centrale (considerato una presenza fastidiosa) il controllo degli aiuti e ne paralizzò le reti clientelari, oltre a separare il processo di ricostruzione dal processo politico. Barfield sottolinea che una ricostruzione che avesse portato il paese alle condizioni del 1978 lo avrebbe comunque lasciato in coda in qualsiasi indice di sviluppo; sarebbe servita la costruzione e il potenziamento di capacità produttive, non un ritorno ai bassissimi livelli prebellici. Inoltre gli impegni internazionali sarebbero sempre rimasti nell’ordine delle poche decine di dollari pro capite per ogni afghano, parte dei quali sarebbe tornata ai paesi donatori sottoforma di profitti aziendali o di retribuzione per i consulenti.
Barfield scrive che nel 2007 l’Afghanistan sarebbe finito per produrre il 90% dell’oppio illegale al mondo, e che fuori Kabul sulla popolazione da sempre diffidente verso la élite cittadina avevano buon gioco i conservatori intolleranti verso le organizzazioni non governative che agivano per giunta mostrando insegne proprie anziché quelle governative. Il governo non riusciva a soddisfare esigenze elementari come l’elettricità o l’acqua potabile nemmeno nella capitale e “le generali denunce di problemi legati alla sicurezza, al malgoverno, alla corruzione e agli abusi di potere, in assenza di misure serie per arginarli, fecero diminuire progressivamente la fiducia degli afghani nell’amministrazione Karzai”. Alla metà del 2006 i talebani avevano fatto la loro ricomparsa a Helmand e a Kandahar; Barfield sottolinea l’impennata di attacchi suicidi, ordigni improvvisati e scontri a fuoco. L’Afghanistan di quegli anni viene ritratto da Barfield come diviso abbastanza nettamente tra un nord e un ovest in crescita grazie agli investimenti iraniani e alle vicine repubbliche centroasiatiche, e un sud e un est pashtun stagnanti, in cui l’intervento governativo si limitava a non interferire con la coltura dell’oppio.
La facilità con cui gli USA avevano sconfitto i talebani nel 2001 aveva “favorito l’autocompiacimento”, scrive Barfield. Nulla era stato fatto per impedire agli esuli in Pakistan di mobilitare gli effettivi sparsi in tutto il paese; gli stessi leader insorti contro i sovietici insorgevano adesso contro gli USA nell’est del paese anche senza un comando unificato, mantenendo comunque stretti legami coi servizi pakistani. L’invasione statunitense aveva resuscitato politicamente i vecchi mujaheddin che i talebani avevano costretto al silenzio o all’esilio: Hetmatyar e lo Hezb-i-Islami sarebbero tornati in azione ad est, Jalaluddin Haqqani al sud, nelle stesse regioni in cui i talebani del mullah Omar sarebbero tornati attivi potendo contare sull’economia dell’oppio e sul plateale e nutrito sostegno pakistano, nonostante quelle zone nel 2001 non si fossero mossi per difenderli. La base ideologica talebana, nota Barfield, era cambiata: non più musulmani fanatici ma nazionalisti timorati che volevano espellere i non musulmani dal paese. Di contro, nota l’A., il movimento gravitava in misura sempre più rilevante sul Pakistan e la loro condanna di Karzai suonava ipocrita agli afghani, data la soggezione dei talebani agli interessi del Pakistan.
Il fallimento della ricerca di stabilità in Afghanistan è il tema del sesto capitolo. L’A. Indica nell’ascesa dello statunitense Barack Obama un punto di svolta anche per l’Afghanistan. La nuova amministrazione statunitense inviò più truppe a puntellare un Karzai screditato e attaccato al potere ma non estromettibile senza smentire la propaganda sulla “esportazione della democrazia”. La presidenza Obama avrebbe portato a centomila effettivi il numero di soldati statunitensi in Afghanistan, per cercare di venire a capo tramite il funzionario Richard Holbrooke di quello che veniva chiamato “Af-Pak”, a riconoscere il fatto che le insurrezioni dipendevano dal sostegno pakistano. Barfield descrive i dettagli dei piani esaminati, che in un caso prevedevano una campagna antinsurrezionale lunga dieci anni e al costo di novecento miliardi di dollari. Ogni regione liberata dagli insorti sarebbe stata controllata dal governo Karzai, sul cui conto l’ambasciatore Eikenberry si espresse in termini molto negativi: in quel 2009 Karzai avrebbe stretto patti con signori della droga come Akhundzada e un grosso numero di signori della guerra, con l’intento di dimostrare in Occidente di non essere il burattino di nessuno. Un inquietante scollamento dalla realtà, commenta Barfield, per uno che se fosse stato lasciato alla mercé di alleati simili non sarebbe sopravvissuto una settimana. E che vinse le elezioni al primo turno grazie a plateali e massicci brogli, e al secondo per il ritiro dell’avversario Abdullah. Nel successivo mandato, Karzai avrebbe ampiamente ostentato credenziali nazionaliste attaccando costantemente le stesse forze internazionali cui doveva la permanenza al potere. Barfield conferma che l’uccisione di Bin Laden nel 2011 rafforzò Obama nella propria decisione di non profondere ulteriori risorse in un Afghanistan in cui almeno la minaccia pashtun dal sud sembrava eliminata e dove i militari della coalizione non potevano rimproverare gli afghani per le loro divisioni tribali, dal momento che ne soffrivano di altrettanto profonde e di altrettanto sconcertanti, agli occhi di un osservatore esterno. Barfield nota che gli statunitensi cercavano di coinvolgere nella lotta ai talebani le popolazioni locali e i capi delle comunità, che non si impegnavano solo per dover poi sottostare a funzionari corrotti e nominati da Kabul. L’A. Scrive che la tempistica del ritiro statunitense fu definita più dalle esigenze interne degli USA che non dalla situazione sul campo, con particolare riferimento all’impreparazione delle forze armate governative. L’improvvisa ascesa dello Stato Islamico in Iraq e nel Levante impose una inversione di rotta nel 2015 e un sostanziale abbandono dei piani per il ritiro.
Barfield espone le caratteristiche negative della presidenza Karzai, tra corruttela abituale a ogni livello, reti clientelari e traffici internazionali (il caso della Kabul Bank) distinguendo la corruzione che permetteva di reggere la macchina statale col mantenimento di reti e rapporti interpersonali dalla corruzione che puntava a distruggerla portando denaro all’estero. In Afghanistan, i corrotti distruttori si sarebbero trovati nel governo centrale, i corrotti costruttori nelle strutture periferiche invise a Karzai. I costruttori, spiega Barfield, agivano evitando di trasferire proventi doganali e tasse al governo centrale e reimpiegandoli per il territorio. Citando Sarah Chayes, l’A. Conclude che la presidenza Karzai fu “un’organizzazione criminale verticalmente integrata, la cui attività principale non era di fatto l’esercizio delle funzioni di uno stato, ma piuttosto l’accaparramento di risorse per guadagno personale”. E nel fare questo, poteva sfruttare gli aiuti dei finanziatori internazionali. Barfield nota comunque che Karzai, in assoluta controtendenza con i precedenti noti, uscì di scena di propria volontà nel 2014 con reputazione di uomo modesto, dal momento che non si era mai dato a consumi sfrenati e non aveva mai apertamente abusato dei propri privilegi.
Alle elezioni del 2014 l’elettorato Pashtun si sarebbe presentato diviso in vari candidati, cosa che permise al tagiko Abdullah di vincere al primo turno. Al secondo, una massiccia, gonfiata e più che sospetta convergenza di voti pashtun permise di vincere al pashtun Ashraf Ghani. L’organizzazione della UE che sovrintendeva al voto, racconta Barfield, non riuscì a venire a capo dei brogli nonostante avesse impiegato mesi e speso centinaia di milioni. Su pressione dello statunitense Kerry Ghani e Abdullah avrebbero formato un governo di unità nazionale in barba a qualsiasi dettato costituzionale e da legittimarsi a posteriori, cosa che in effetti non sarebbe mai avvenuta. Il risultato, riflette Barfield, era un sintomo, non una causa che andava invece identificata nel sistema politico inadatto al paese. Ghani e Abdullah erano comunque ben accetti sul piano internazionale; firmarono con gli USA (che evitavano di insultare) il piano per il ritiro delle truppe e cercarono di attirare investimenti cinesi dal momento che pochissime imprese occidentali si erano arrischiate a investire denaro proprio in Afghanistan. Sul piano interno invece i gruppi di interesse che facevano capo ai vertici dell’esecutivo mettevano in stallo il conferimento delle nomine lasciando al loro posto molte figure irrilevanti a suo tempo nominate da Karzai, mentre i giovani tecnocrati apprezzati da Ghani entravano spesso in conflitto con i vecchi combattenti, disprezzati per la loro scarsa istruzione. In questo contesto, scrive Barfield, il ritiro progressivo dei contingenti occidentali avrebbe lasciato nuovamente posto ai talebani e al Pakistan che li sosteneva facendo apertamente il doppio gioco, nonostante i rovesci inflitti loro dagli attacchi e dalle esecuzioni extragiudiziali degli statunitensi. Nel 2015 i talebani conquistarono temporaneamente la città settentrionale di Kunduz; Barfield considera l’episodio come i prodromi di quanto sarebbe accaduto nel 2021 in tutto il paese e spiega che la minoranza pashtun della città aveva agevolato la conquista per ottenere protezione contro le milizie locali, uzbeke e tagike, che agivano in un sistema di divisioni etniche politicizzate. La riconquista della città sarebbe stata possibile solo con l’aiuto statunitense. Negli anni successivi i talebani avrebbero evitato gli scontri aperti ma sottrassero al governo un numero sempre più grande di aree marginali, eliminando le forze straniere dalla maggior parte del paese con una guerriglia a bassa intensità.
Una digressione sulla vita quotidiana a Kabul nel 2019 viene presentata dall’A. Come confutazione dell’assunto per cui la realtà afghana sarebbe stata immutabile e insuscettibile di modernizzazione. Un’altra digressione sui rapporti tra sovrano e visir nel mondo turco-iranico, l’occasione per illustrare la politica del tecnocrate Ashraf Ghani, che sarebbe finito col trascorrere la maggior parte del tempo e delle energie a cercare di emarginare Abdullah e i suoi gruppi di riferimento -i pashtun Durrani del sud, gli uzbeki e i tagiki a nord- che furono praticamente estromessi soprattutto dall’esercito. Dove elementi validi furono sostituiti da altri di sicura fedeltà ma dalla dubbia competenza, come avrebbe provato nel 2018 la conquista talebana della città di Ghazni, ripresa solo con l’aiuto di militari statunitensi. Barfield ascrive a Ghani ammirazione per Abdur Rahman, e una analoga scarsa tolleranza per concorrenti o leader locali. Con questo atteggiamento egli affrontò le elezioni del 2019 cui partecipò solo il venti per cento dell’elettorato, e che ripeterono il risultato farsesco delle precedenti.
Barfield ricorda che non sapendo bene come comportarsi in proposito, il nuovo presidente statunitense Trump inviò Zalmay Khalilzad a trattare il ritiro con i talebani nel settembre 2018. Su loro richiesta il governo di Ghani, convinto che gli statunitensi sarebbero rimasti per sempre, non fu neppure informato dei colloqui. Trump aveva minacciato di ritirare le truppe in ogni caso e contrattò il ritiro completo degli USA dietro garanzia che l’Afghanistan non ospitasse movimenti o singole personalità ostili verso altri paesi, che i talebani si accordassero con Kabul e che raggiungessero un cessate il fuoco generale. Il ritiro statunitense iniziò comunque a colloqui in corso e fu interrotto dopo una serie di attentati; ripresero dopo la riconferma di Ghani alle presidenziali del 2019, gli USA ebbero l’assicurazione che i talebani non avrebbero ospitato organizzazioni ostili e vaghe garanzie sul resto. L’A. Spiega che Khalilzad tentò per mesi di avviare trattative fra Kabul e i talebani senza arrivare a nulla. I talebani erano intenzionati a ripristinare l’emirato e non a negoziare; non per questo Trump fermò il ritiro, lasciando ogni responsabilità all’amministrazione entrante. Nel dibattito successivo un gruppo di studio competente in materia rilevò che sarebbe stato opportuno rinviare il ritiro: altre forze NATO erano intenzionate a restare e a sostenere l’esercito afghano in caso di offensive talebane. Barfield nota che con poca logica Biden ordinò il ritiro trincerandosi dietro gli accordi già stretti: in altri casi aveva ribaltato con orgoglio le decisioni di Trump. Secondo Barfield Biden avrebbe voluto “dimostrare di essere al comando e vedere realizzati i propri desideri senza badare alle conseguenze” dopo che da vicepresidente di Obama non aveva visto alcun riconoscimento per la linea politica che proponeva.
Storicamente al loro ritiro gli occupanti stranieri avevano scelto con una certa cura leader forti e li avevano insediati al posto di quelli deboli in carica durante l’occupazione, sostenendoli poi dall’esterno. Gli statunitensi non si posero nemmeno il problema. Il ritiro, nota Barfield, comportò “passaggi di consegne frenetici e disorganizzati” e avvenne in piena estate, consentendo ai talebani di conquistare in pochi giorni nell’agosto 2021 molti capoluoghi di provincia consegnatisi senza combattere. L’A. Sottolinea che così come gli USA avevano abbandonato la base aerea di Bagram senza neppure informare gli afghani, così Ghani sarebbe fuggito in Uzbekistan senza informare né il suo esecutivo né i militari. Il 15 agosto 2021 i talebani entrarono nella residenza presidenziale.
Biden deplorò il fatto che i trecentomila regolari afghani fossero rimasti con l’arma al piede, ma Barfield ricorda che la caduta repentina degli esecutivi e il fatto che le truppe a loro fedeli si arrendessero senza combattere erano state la norma, nella storia contemporanea dell’Afghanistan. Nella cultura politica afghana “la percezione del potere è il potere stesso”; nel 2021 i talebani erano percepiti come i vincitori. Un’altra invariante notata da Barfield è la tendenza dei dominatori a ripetere gli stessi errori di chi li aveva preceduti e a credere senza limiti il proprio mandato. Per sperare di tenere il paese invece i talebani dovrebbero tenere le organizzazioni ostili fuori dal paese, finanziare la macchina statale, venire a patti con la popolazione urbana e risolvere le proprie divisioni interne. Il denaro straniero ha comunque fatto crescere di cinque volte l’economia di un Afghanistan che continua a dipendere dall’esterno, e storicamente il venire meno dei finanziatori è stato negativo per i governi in carica. La popolazione urbana è aumentata in modo altrettanto vertiginoso, con i debiti effetti sul conflitto tra città e campagne, e l’A. Ricorda che nella repressione di eventuali insurrezioni cittadine i talebani hanno fino al 2023 fornito prove disastrose, così come è sicuro che l’Afghanistan ospiti gruppi armati ostili ai governi di altri paesi e migliaia di combattenti difficili da inserire nella vita civile.
Nelle conclusioni risalenti al 2010, Barfield nota che i cambiamenti verificatisi nell’economia e nel corpo sociale del paese non venivano presi in considerazione nella maggior parte dei progetti di sviluppo, e nota la prevalenza di luoghi comuni non sempre fondati, come quello che vuole il paese “ingovernabile” laddove il problema principale sarebbe l’ostinarsi a imporre (al di là della teoria) strutture centralizzate, e quello del problematico rapporto con la modernità. L'A. nota che anche i criteri premoderni con cui la popolazione ha sempre valutato i dominanti stanno cambiando col cambiare della demografia, così come stanno cambiando le aspettative e le prospettive economiche con l’apertura di nuove vie per l’accesso al mare attraverso i porti iraniani e il coinvolgimento indiano e cinese nella prospezione mineraria e nelle infrastrutture. Un quadro che potrebbe confutare l’assunto di un Afghanistan prigioniero del proprio passato.


Thomas Barfield, Afghanistan. Una storia politica e culturale. Milano, Einaudi 2023. 528 pp.