Sarah Gainsforth ha esaminato in "L'Italia senza casa - Politiche abitative per non morire di rendita" la storia recente del patrimonio immobiliare e delle politiche abitative nella penisola italiana considerando la situazione al 2025.
Il libro inizia con una narrazione aneddotica sulla compiuta distruzione, nello stato che occupa la penisola italiana, di "tutto ciò che serve alle persone normali per vivere" -dalla casa al lavoro, dalla sanità alla scuola- secondo un processo iniziato verso il 1985. In particolare "la dimensione privatistica dell'abitare" avrebbe preso il sopravvento nei centri storici togliendo molta funzione sociale a spazi pubblici adesso destinati al consumo e allontanandone i non solvibili. L'A. considera sostenibile una spesa per l'abitazione che non superi il 30% del reddito e afferma che "nessuna città e nessuna modalità di accesso all'abitazione" si avvicinerebbe oggi a rispettare un simile parametro. Negli ultimi anni la diminuzione del potere d'acquisto, la difficoltà di accesso al credito e l'aumento dei prezzi delle case avrebbero fatto salire una domanda di affitti che l'esplosione delle locazioni turistiche avrebbe lasciato senza offerta. La crisi abitativa avrebbe in generale alla radice un "progressivo slittamento della funzione della casa da bene d'uso a bene di scambio e di investimento". La Gainsforth identifica due fasi fondamentali nelle politiche per la casa nella penisola italiana: a una prima fase keynesiana iniziata dopo la seconda guerra mondiale sarebbe seguita una fase di declino delle politiche abitative, contemporanea all'inizio del boom speculativo. Il social housing introdotto nel 2008 viene considerato dall'A. come il cavallo di Troia che avrebbe consentito l'ingresso della finanza nel mercato delle locazioni. Dopo il 2000 la politica locale avrebbe dovuto sopperire al taglio dei trasferimenti statali cercando di attrarre capitali privati e spesa turistica con quella cessione di aree edificabili e quella vendita di patrimonio pubblico che sarebbero alla base della gentrificazione. L'ascesa del fenomeno degli affitti brevi, avvenuto in un sostanziale vuoto normativo, avrebbe modificato il mercato immobiliare in molti centri urbani, di fatto estromettendone chiunque non corrisponda a un target sempre più selezionato di abitanti temporanei. Questo fenomeno scoraggerebbe fra l'altro i trasferimenti di studio e di lavoro e contribuirebbe a rendere l'emigrazione una alternativa più che valida. L'A. ricorda come l'estensione della proprietà privata delle abitazioni, avvenuto soprattutto grazie a investimenti e agevolazioni pubbliche, sia stata usata politicamente come strategia di acquisizione del consenso e abbia rappresentato "il volano di avanzamento delle classi medie". Negli ultimi decenni invece, con la crescente mercificazione di beni e servizi fondamentali, la casa sarebbe diventata essenzialmente un investimento finanziario e questo fenomeno avrebbe reso un'emergenza la questione abitativa nonostante il calo demografico e le molte case vuote.
Nel primo capitolo la Gainsforth inquadra storicamente il tema della povertà urbana dal XIX secolo in poi, l'avvento dell'industrializzazione e gli interventi in campo sanitario e urbanistico imposti dagli effetti della miseria e dell'inquinamento. Nella penisola italiana il lavoro sarebbe servito da discrimine per selezionare i destinatari di uno stato sociale familistico, corporativistico e frammentato che sarebbe nato con i primi provvedimenti di regolamentazione del lavoro stesso. Il paternalismo di fabbrica avrebbe permesso il controllo sociale dei lavoratori anche durante il loro tempo libero; accanto ad esso sarebbero nate le cooperative operaie, che sarebbero riuscite a dare concrete risposte ai problemi abitativi di parte dei ceti subalterni, segnatamente all'aristocrazia operaia e alla piccola borghesia impiegatizia. Dopo la fondazione degli Istituti autonomi per le case popolari all'inizio del XX secolo, sarebbe stato il fascismo a consolidare lo stato sociale come strumento di consenso e di controllo, "accentuandone il carattere corporativo, frammentario, settoriale e clientelare" e agevolando il paternalismo aziendale. L'esaltazione della "ruralità" avrebbe comportato in concreto il lasciare a se stessi i lavoratori agricoli, l'eliminazione del problema della povertà dall'agenda politica e l'espulsione dei poveri e dei disoccupati dalle città, perseguita con lo sventramento dei centri storici e la costruzione di borgate periferiche. Dopo la seconda guerra mondiale l'esecutivo avrebbe invece avviato una politica di massiccio intervento pubblico con riforma agraria, Cassa del Mezzogiorno e piano Ina-Casa, volti a favorire la formazione della piccola proprietà, politicamente intesa come presidio della libertà personale. Il testo descrive in particolare la storia e il funzionamento del piano INA-Casa (finanziato in gran parte con trattenute sulle retribuzioni), i suoi esiti complessivi e i limiti che sarebbero emersi nel corso del tempo. In questo, e trattando poi delle sovvenzioni statali destinate alle cooperative di abitazione e alle società private senza fini di lucro, l'A. sottolinea come gli esiti di una politica abitativa sarebbero molto diversi a seconda che venga garantito l'uso o la proprietà di un alloggio. Nel primo caso esso rimarrebbe vincolato nel tempo a una funzione di solidarietà sociale, nel secondo caso -destinato a predominare oltremodo nella realtà peninsulare- esso fornirebbe al proprietario vantaggi destinati a consolidarsi nel tempo -grazie agli interventi pubblici di urbanizzazione del territorio- rispetto a quanti fossero invece rimasti esclusi. Col venire meno del sostegno pubblico alla proprietà a partire dagli anni Novanta, la platea degli esclusi sarebbe cresciuta senza poter contare su case in locazione a prezzi accessibili.
Il secondo capitolo affronta il tema del valore del suolo, il cui consumo sarebbe triplicato dalla fine degli anni Settanta. Industrializzazione e aumento della popolazione urbana avrebbero causato l'abbandono di rilevanti quote di attività agricole e un non sempre legale cambio delle destinazioni d'uso del suolo. Il fenomeno avrebbe a sua volta causato un aumento delle rendite, intese come guadagni che -a differenza dei salari e degli utili d'impresa- non sono generati da lavoro produttivo. L'A. nota come la rendita, successivamente avvantaggiatasi di urbanizzazioni e riqualificazioni, sarebbe diventata centrale nei processi di trasformazione del territorio, definendo le dinamiche insediative di famiglie e imprese perché attrae gli investitori e respinge chi non può pagare i suoi costi crescenti. Sarah Gainsforth ripercorre la storia della legislazione urbanistica dal 1942 in poi -strumento essenziale per il governo della rendita- sottolineando l'incompletezza della sua applicazione e l'amplissimo spazio lasciato negli anni Sessanta a una speculazione fondiaria e immobiliare priva di autentici freni. L'A. sottolinea la differenza tra proprietà e diritto di superficie, ricordando una proposta di legge del 1962 -mai arrivata alla discussione a causa di una perentoria campagna mediatica contraria animata da una "mobilitazione individualista"- che avrebbe fatto una regola l'esproprio preventivo da parte dei comuni e il riconoscimento del diritto di superficie a quanti fossero stati intenzionati a costruire. La contrarietà a quella che sarebbe stata percepita una nazionalizzazione massiccia dei terreni edificabili avrebbe addirittura contribuito ad alimentare le tentazioni golpiste di metà anni Sessanta. La Gainsforth scrive anche di come la legislazione esistente per l'edilizia economica e popolare sarebbe stata interpretata in modo diverso dalle varie amministrazioni locali, anche se a trarne beneficio sarebbe stato quasi esclusivamente il ceto medio. Il coinvolgimento di privati e cooperative avrebbe prodotto in alcuni contesti -come quello bolognese- un'edilizia in grado di competere per localizzazione e qualità con quella privata, dimostrando la capacità del pubblico di guidare lo sviluppo urbano e di controllare il fenomeno della rendita.
Nella penisola italiana l'abusivismo edilizio -un fenomeno di ampiezza impressionante, da inquadrare nella "mobilitazione individualista" degli anni Sessanta-Ottanta del XX secolo- sarebbe stato un canale importante per l'accesso alla proprietà della casa e si sarebbe intrecciato in vari modi con le forme di pianificazione effettivamente in vigore, nonostante i piani regolatori fossero obbligatori dal 1967 e fossero stati fissati anche determinati standard urbanistici fissando per la prima volta una relazione tra territorio e diritti di cittadinanza e riconoscendo l'aspetto sociale dell'abitare. Sarah Gainsforth ricorda anche la prassi peninsulare degli effetti-annuncio sulla legislazione: nel caso specifico moratorie e condoni edilizi avrebbero oltremodo accentuato i fenomeni che avrebbero voluto regolare. Una sentenza della Corte Costituzionale del 1968 avrebbe inoltre rovesciato a favore dei privati i rapporti di forza, statuendo di fatto un "diritto di pianificazione" con relativi indennizzi a favore di privati nel caso in cui i piani regolatori prevedessero l'impossibilità di costruire. La sentenza avrebbe fatto impennare i costi degli espropri e reso di fatto ingestibili i contenziosi. L'A. nota come a una fase storica di "abusivismo di necessità" -eclatante in casi come quello romano- sarebbe poi seguita una fase di abusivismo speculativo (edifici rialzati, seconde case su terreni demaniali eccetera) a tutt'oggi in corso. La classe politica, per lo più orientata a cercare il consenso di chi ne ha tratto vantaggio, si sarebbe per lo più limitata a stigmatizzare il solo abusivismo di necessità.
Il quarto capitolo del libro descrive come il rapido aumento della rendita dovuto alla densificazione e all'espansione urbana avrebbe portato nei primi anni Sessanta a una serie di proteste contro l'aumento degli affitti, con l'occupazione di interi edifici e autoriduzioni dei canoni. La Gainforth scrive come nello stato che occupa la penisola italiana i canoni di affitto sarebbero stati oggetto -tra il 1945 e il 1978- di proroghe, liberalizzazioni parziali e soprattutto blocchi, creando una stratificazione di canoni fissati in epoche diverse e tanto più bassi quanto più remoto sarebbe stato il provvedimento che li aveva riguardati. Alla fine degli anni Sessanta le proteste per il diritto alla casa si sarebbero saldate con quelle per il lavoro; il conflitto sociale avrebbe imposto la ricerca di soluzioni, che Roma avrebbe cercato prendendo in carico la politica abitativa, delegando le competenze sulla casa alle regioni e approvando nel 1971 e nel 1977 leggi che avrebbero cercato -fino a un definitivo pronunciamento contrario della Corte Costituzionale nel 1980- di separare la proprietà fondiaria e l'attività immobiliare accordando ai piani regolatori il primato sui diritti dei proprietari terrieri. L'A. descrive anche l'effetto della legge sull'equo canone del 1978, che avrebbe ristretto l'offerta... e fatto aumentare gli affitti, dal momento che non sarebbero state prese misure per un'offerta pubblica di abitazioni a locazione e che la legislazione in merito sarebbe rimasta praticamente lettera morta; la proprietà sarebbe apparsa sempre più l'unica soluzione praticabile, e i prezzi delle case si sarebbero impennati in pochi anni. Contemporaneamente si sarebbe verificato un marcato scollamento tra produzione edilizia ed esigenze abitative, col risultato che nel 2021 nella penisola italiana vi sarebbero stati quasi dieci milioni di abitazioni vuote -pari al 27,2% del totale- non solo collocate in contesti a bassa tensione abitativa. A partire dagli anni Settanta si sarebbe affermata una morfologia urbana, causata dalla trasformazione della produzione e degli stili di vita, oltre che dalla nuova distribuzione della rendita. L'A. nota come il "successo" della città avrebbe cominciato a espellere dai centri storici gli appartenenti al ceto medio -comunque soddisfatti di aver trovato sistemazione altrove grazie alle nuove infrastrutture per la mobilità e per i servizi- dando il via a un processo di crescente polarizzazione socioeconomica, fino ad arrivare a situazioni in cui -come nel caso milanese- l'attuale rendita immobiliare starebbe ostacolando la permanenza anche della forza lavoro meglio retribuita.
La Gainsforth rintraccia voci che denunciavano l'enfiarsi della rendita nella penisola italiana già nel 1972, anche in ambienti capitalistici. Alle denunce non solo non avrebbero fatto seguito iniziative concrete, ma in pochi anni il mondo imprenditoriale avrebbe cambiato radicalmente corso, rivolgendosi alla proprietà immobiliare e al territorio invece che alla produzione industriale. L'amplificazione della rendita urbana -componente parassitaria del reddito derivante dal privilegio della proprietà- ottenuta con la "valorizzazione immobiliare" sarebbe diventata il perno della svolta economica aperta dalla crisi della produzione fordista perché nella penisola italiana la crisi della produzione sarebbe stata gestita allentando i tentativi di regolazione pubblica del territorio e sostituendo ad essa la "forza irregolare" di una rendita che avrebbe sovrinteso alle dinamiche del territorio al posto della pianificazione urbanistica. La Gainsforth ricorda come la deindustrializzazione della penisola italiana sarebbe iniziata con la perdita delle eccellenze alla metà degli anni Sessanta e sarebbe continuata con il deliberato smantellamento delle partecipazioni statali. La speculazione immobiliare avrebbe vinto su ricerca, sviluppo ed economia della conoscenza, lasciando la penisola in uno stato di "paleocapitalismo senza mdoernizzazione, di conservazione di rendite e privilegi proprietari" in cui negli ultimi quattro decenni il reddito da capitale avrebbe cambiato ampiamente forma -passando dalla forma di profitto a quella di rendita da abitazione- con i drastici mutamenti delle politiche abitative e la trasformazione dell'abitazione da diritto per molti a merce e patrimonio per pochi. L'A. ricorda la concezione filosofica del liberalismo classico e il suo prevedere limiti al potere dello Stato per garantire libertà individuale e proprietà privata, e la concezione neoliberista per cui lo Stato sarebbe dovuto intervenire a sostegno del profitto e della rendita rinunciando agli scopi sociali e redistribuitivi della sua azione. La politica abitativa sarebbe passata dal sostegno all'offerta edilizia al sostegno della domanda con strumenti come i sussidi per l'affitto sul mercato privato, incentivando la tendenza del capitale a riprodurre se stesso anziché produrre profitti e utilità sociale. Con gli anni Novanta anche lo stato che occupa la penisola italiana avrebbe seguito Regno Unito e Stati Uniti liberalizzando il mercato delle locazioni, sussidiando gli affitti privati, dismettendo il patrimonio pubblico e promuovendo ulteriormente la proprietà dell'abitazione. L'A. si sofferma in particolare sul caso del Regno Unito, mostrando come la spesa pubblica dirottata a sostegno del mercato sia addirittura aumentata. A tutt'oggi l'aumento dei canoni renderebbe il 20% delle famiglie britanniche dipendenti dai sussidi per gli affitti. La promozione della proprietà privata sarebbe servita essenzialmente a rendere accettabile la progressiva sottrazione di welfare, frammentando la collettività e rendendola sempre meno conflittuale perché proprietaria; il corpo sociale sarebbe stato trasformato "in un insieme di individui soli, che devono salvarsi da soli sgomitando al banchetto della rendita immobiliare e cercando di salire sulla zattera del capitalismo finanziario presentato come unico orizzonte di salvezza possibile". Nello stato che occupa la penisola italiana la "mobilitazione proprietaria individualista" avrebbe fatto interiorizzare come pratica individuale normale la speculazione immobiliare e avrebbe agevolato la diffusione degli affitti brevi a mezzo piattaforma digitale, surriscaldando il mercato e distruggendo il tessuto sociale delle città.
Nel sesto capitolo il libro ripercorre la storia recente del mercato dell'affitto nella penisola italiana, regolato dal 1998 da una legge che avrebbe sancito la fine dell'equo canone, introdotto contributi per l'affitto (in realtà finanziati poco, male e sottoposti a un accesso a graduatoria) e ammesso due tipi di canone, uno libero e uno concordato, stabilendo agevolazioni fiscali per i proprietari che concordassero canoni inferiori a quelli di mercato. La fine della presenza statale nell'edilizia residenziale pubblica avrebbe completato il trasferimento della materia alle regioni mentre gli enti gestori sarebbero diventati aziende, obbligate a presentare bilanci in pareggio nonostante il loro contesto non sia quello del mercato e nonostante i canoni sociali fissati per legge (ed estremamente bassi) non tengano conto delle necessità di bilancio. La cattiva o assente gestione conseguente la scarsità di risorse disponibili agevolerebbe le occupazioni abusive di alcuni dei molti alloggi lasciati vuoti dai lunghissimi tempi per le riassegnazioni o dalla necessità di ristrutturazione. L'A. sottolinea anche la rimarchevole presenza di famiglie a reddito zero tra quelle assegnatarie, cosa che rende difficile la regolare riscossione dei canoni, ricordando come in Europa solitamente i canoni siano molto più alti ma surrogati dall'intervento pubblico e come gli enti riescano quindi a quadrare i bilanci ed eseguire manutenzioni. Il turn over delle assegnazioni sarebbe inceppato anche dal ricorrente varo di sanatorie a beneficio di quanti superino le soglie di reddito o risultino morosi. La permanenza a tempo indefinito di inquilini in abitazioni che dovrebbero accompagnare l'uscita da una situazione di fragilità sarebbe favorita anche dall'impossibilità di reperire altre sistemazioni a canoni accessibili. Le tendenze attuali, chiude la Gainsforth, vedrebbero un aumento della povertà tra gli inquilini delle case popolari e renderebbero prevedibile il collasso di un sistema finanziariamente insostenibile, stante anche l'assenza di un osservatorio sulla condizione abitativa previsto fin dal 1998 ma mai istituito. Dal 1993 sarebbe anche iniziata la svendita agli assegnatari -per lo più a prezzi ridicoli- del patrimonio pubblico; nel 1996 lo stesso saebbe toccato agli alloggi degli enti previdenziali, nel 2001 sarebbe toccato al patrimonio pubblico in generale. Gli intenti risanatori delle operazioni non sarebbero mai stati confermati da verifiche contabili, e la stessa Corte dei Conti si sarebbe espressa in termini sprezzanti nei confronti di esse, deplorando innanzitutto il principio eretto a dogma per cui i beni pubblici siano improduttivi e inefficienti per definizione e che la loro alienazione sia l'unica soluzione concepibile.
La Gainsforth ricorda che all'inizio del XXI secolo anche il modello manifatturiero a gestione familiare -caratterizzato da bassa istruzione del personale e scarsi investimenti in ricerca e sviluppo- avrebbe mostrato i propri ovvi limiti e che il fenomeno sarebbe stato contrastato rianimando il settore immobiliare e spostando ulteriori risorse verso la rendita. Dal 1983 la possibilità accordata al sistema bancario di operare come intermediario finanziario avrebbe facilitato l'accesso al credito; la finanziarizzazione della casa avrebbe però collegato i rischi abitativi ai rischi dei mercati finanziari, oltre a far impennare il valore degli immobili. Altro effetto considerato, la concentrazione degli affittuari nelle fasce inferiori del reddito rimaste escluse dall'accesso al credito. Negli anni Novanta imprese, banche ed enti pubblici avrebbero iniziato a costruire società veicolo cui conferire un patrimonio immobiliare prima usato in modo strumentale, ottenendo dalle banche capitali da mettere a bilancio. L'aumento dei valori immobiliari e la restituzione dei prestiti avrebbe consentito alle imprese di trattenere il plusvalore. La Gainsforth sottolinea come il sistema abbia retto finché il valore degli immobili ha continuato a salire, per incepparsi a fine crescita; intanto nella penisola italiana sempre maggiori risorse sarebbero state sottratte ad impieghi produttivi per finire impiegate nelle speculazioni e in una rendita che "deprime l'economia mentre si vanta di salvarla". Alla fine degli anni Novanta i fondi immobiliari avrebbero motivato le transazioni immobiliari solo in virtù dell'aumento di valore dei capitali investiti, arrivando al paradosso per cui il valore finanziario prescinde dall'utilizzo concreto degli immobili. L'A. nota come il vocabolo "valorizzazione" applicato agli immobili indichi una estrazione di valore dall'esistente, un incremento della rendita di fatto speculativo, ma oggi presentato come desiderabile. La progressiva deregolamentazione urbanistica avrebbe tutelato l'interesse privato nell'uso del suolo, e agevolato gli interventi degli attori finanziari nello spazio urbano, dal momento che l'estrazione di valore dipenderebbe anche dalla collocazione degli immobili in uno spazio strutturato socialmente. Alla deregolamentazione urbanistica sarebbe corrisposta una riduzione dei trasferimenti agli enti locali tale da indurre i comuni a trasformare le città in parchi giochi per attirare capitali e spesa turistica e a usare il suolo disponibile come moneta di scambio per attirare gli investimenti e incamerare oneri concessori e oneri urbanistici. Alla pianificazione urbanistica si sarebbe in grossa parte sostituito il ricorso ad accordi "tra soggetti che hanno il potere di decidere", specie dopo che dal 1992 sarebbero di fatto i privati a proporre la riconversione di intere parti delle città da una posizione di forza. In particolare, la prassi delle "compensazioni urbanistiche" con la concessione di cubature in aree non sottoposte a vincoli tenderebbe a rendere le amministrazioni comunali ostaggio di "diritti edificatori" privati. L'A. nota anche i casi in cui opere e servizi pubblici a carico dei privati siano rimasti sulla carta a causa del fallimento dichiarato dai costruttori. Nella comunicazione politica gli accordi pubblico-privato sarebbero spesso descritti come "a costo zero" per il pubblico, laddove l'interesse privato comporterebbe anche un aumento di costi pubblici a loro volta da sostenere ricorrendo alle stesse politiche che hanno aggravato il problema. L'urbanistica tradizionale, rea di difendere le città dalla prepotenza dei più forti, verrebbe presentata come rigida, autoritaria e vecchia e da abbandonare in favore dell'urbanistica contrattata, per definizione democratica, flessibile, moderna e inclusiva. Un esame del "modello Milano" -in cui più che altrove risalterebbe il fatto che per molti anni gli oneri urbanistici sarebbero rimasti gli stessi a fronte di un aumento costante delle rendite- porta l'A. a concludere che di fatto l'urbanistica non sarebbe neppure più "contrattata", ma decisa direttamente dai privati. Negli ultimi vent'anni a Milano il modello speculativo avrebbe superato la prassi dei palazzinari che prendevano prestiti dalle banche per costruire case, e sarebbe stato dominato da un modello privo di legami con la città fisica in cui i prezzi delle abitazioni non sono legati al rapporto tra domanda e offerta di case, ma fra domanda e offerta di prodotti finanziari. Una realtà che avrebbe reso vivere a Milano un problema anche per la classe media.
In la casa merce la Gainsforth nota come dal 2008 il concetto di "edilizia residenziale sociale" abbia sostituito quello di "edilizia residenziale pubblica", comportando sostanzialmente l'intervento privato: l'edilizia agevolata realizzata da privati, esclusa dalla vendita per otto anni (quindici per l'edilizia universitaria) e quindi con vincoli sociali limitati nel tempo, vi verrebbe considerata "servizio di interesse generale" destinato a una fascia grigia di popolazione che si trova ai margini del mercato. Per le amministrazioni locali, cercare di compensare in questo modo l'assenza di investimenti in edilizia residenziale pubblica si tradurrebbe in concreto in maggiori volumi edificati e in maggiore suolo consumato in cambio di qualche alloggio per qualche anno. Le regioni (o più raramente i bandi per i progetti convenzionati con i comuni) possono fissare criteri di reddito per l'accesso all'edilizia sociale tanto alti da assicurare la remunerazione dell'investimento tramite la presenza di inquilini solvibili. La conclusione del saggio è che il social housing produrrebbe solo un'appropriazione di rendita da parte dei proprietari privati, a partire dalla concessione di suolo pubblico a condizioni agevolate; a beneficiarne sarebbero stati per lo più i fondi immobiliari, sul cui intervento la Gainsforth descrive prima il caso milanese e poi quello peninsulare, che avrebbe coinvolto anche la Cassa Depositi e Prestiti. L'A. constata l'impossibilità di affrontare la gestione sociale della città con operazioni edilizie private, che avrebbe l'unico risultato di gentrificare i quartieri popolari spostandovi inquilini solvibili, e lasciando i meno abbienti senza soluzioni. Anche la temporaneità nell'assegnazione degli alloggi dovrebbe essere messa in discussione, dal momento che nella penisola italiana il mercato del lavoro sarebbe stabilmente contrassegnato da temporaneità, precarietà, redditi bassi e discontinui. Fuori dalla penisola italiana la regia pubblica delle trasformazioni urbane avrebbe prodotto esiti molto diversi, come attesterebbe il documentato caso francese esposto in dettaglio.
Il nono capitolo tratta della gentrificazione come politica pubblica, in città dove la produzione di beni di consumo avrebbe lasciato il posto a pratiche di estrazione di valore. Il rilancio dell'economia cittadina passerebbe spesso per operazioni all'insegna di un "effimero strutturale" a volte oggetto anche di legislazioni di emergenza per assicurare un termine a determinati progetti immobiliari. La "valorizzazione" immobiliare e finanziaria vi passerebbe dagli eventi temporanei, dai festival, dalle grandi opere progettate da architetti famosi. "Aperitivi, corsi di yoga, concerti e mostre (a pagamento)" sarebbero indispensabili a "rendere digeribile la speculazione immobiliare" e a mostrare come vantaggiosa per tutti la riconversione di parchi ed ex aree industriali in complessi residenziali di lusso. In realtà la città finanziarizzata si concretizzerebbe di una somma di oggetti privati, isolati e autoreferenziali senza relazione col mondo circostante. L'estrazione di rendita, unica parte superstite del concetto di "rigenerazione urbana" al netto del marketing politico, peggiora le condizioni di vita di quanti si trovino "esclusi dal banchetto della rendita". La gentrificazione farebbe leva su un mondo che essa stessa contribuisce a distruggere: tradizioni e pratiche in via di estinzione verrebbero patrimonializzate, rendendole ancor più minoritarie facendo loro perdere la loro dimensione d'uso. L'esplodere degli affitti brevi avrebbe alla base un processo di "valorizzazione" che ha eliminato anche la necessità di trasformare fisicamente gli spazi urbani: basta il semplice cambio di uso delle abitazioni esistenti. Gli affitti brevi avrebbero in pochi anni contribuito ad ampliare la quantità di beni da cui estrarre valore economico, modificando le strategie di valorizzazione delle proprietà e cacciando dal mercato le locazioni ordinarie grazie a una tassazione favorevole e a una molto maggiore redditività. Con conseguenze considerevoli per il tessuto commerciale oltre che sulla presenza di cittadini residenti, al collasso in molti centri storici. Gli affitti brevi avrebbero inoltre contribuito alla scomparsa degli alberghi economici (e dei relativi posti di lavoro) prima sostituendoli e poi praticando prezzi ben più alti. In mancanza di strumenti governativi, la Gainsforth indica insideairbnb.com come fonte di dati per una stima del fenomeno e della sua portata, tale da svuotare dai propri abitanti la Venezia storica e da ridurre ovunque la differenza nei prezzi delle abitazioni fra centro e periferia. Allineandoli tutti verso l'alto. L'ascesa delle locazioni brevi in sostanza comporterebbero maggiori difficoltà ad accedere al mercato immobiliare in tutta la città e non solo nei centri storici. La limitazione agli affitti brevi, tramite sistemi di licenze o controllo delle destinazioni d'uso, consentirebbe secondo l'A. di tutelare la residenzialità come già fatto ad Amsterdam, Barcellona e Parigi; nello stato che occupa la penisola italiana non vi sarebbe al momento alcuna volontà politica di procedere a riguardo, e questo lascerebbe da sole alle prese col problema le amministrazioni locali più consapevoli.
Dopo il 2008 nella penisola italiana il disagio abitativo sarebbe aumentato, riaprendo la questione della casa in termini non dettati dalla scarsità di abitazioni, ma dal loro essere economicamente inaccessibili. Le misure istituzionali come il fondo morosità incolpevole (finanziato per pochi anni) o i contributi all'affitto sarebbero basate su "una lettura astratta e poco realistica della povertà"; anziché politiche per la casa lo stato che occupa la penisola italiana avrebbe promosso programmi edilizi rivolti ai proprietari -con sostegni pubblici alle ristrutturazione e programmi edilizi basati sulla "semplificazione" e sulla deroga agli strumenti urbanistici- e misure securitarie che colpiscono poveri e indesiderati. Le misure adottate andrebbero sempre nella direzione di favorire l'acquisto della prima casa, bloccando la mobilità sociale e territoriale delle fasce di reddito più basse e favorendo l'indebitamento per acquisti che alla prima crisi possono diventare fardelli insopportabili. Dal 2024 sarebbero stati approvati o sottposti ad approvazione decreti "salva casa", "salva Milano" e così via che sancirebbero la pressoché totale e impunita licenza per l'iniziativa privata, di fatto contribuendo a una "rigenerazione urbana" a servizio della rendita.
Il fenomeno degli studentati di lusso con sussidi pubblici è trattato nell'undicesimo capitolo, in cui l'A. descrive il target e il funzionamento di strutture cui Roma avrebbe destinato sostanziosi finanziamenti. Una riforma della legge del 2000 sulla realizzazione di residenze universitarie avrebbe permesso il finanziamento pubblico (al 75%) di posti letto privati per l'alloggio studentesco da far ricadere nella categoria dell'edilizia residenziale sociale fiscalmente agevolata, garantendone però la "flessibilità di utilizzo", ovvero la loro destinazione a turisti. Il tutto, a canoni in linea se non superiori a quelli di mercato. Lo stato che occupa la penisola italiana si sarebbe più volte mosso in modo tale da finanziare gestori privati -che non solo non sono "più efficienti", ma hanno soprattutto altri interessi- anziché affidare agli enti per il diritto allo studio le risorse necessarie al loro compito.
La funzione sociale della proprietà privata e l'esistenza di progetti collettivi di città sarebbero tra i motivi per cui le case sono soggette a una tassazione giustificata anche dalle iniziative pubbliche che incrementano la rendita. La Gainsforth ricorda che anche le politiche fiscali concorrono alla creazione del consenso, e che nella penisola italiana le agevolazioni fiscali avrebbero eroso la base imponibile del sistema, rendendolo sempre meno progressivo. Per assicurare le agevolazioni fiscali per la famiglia e soprattutto per la casa, lo stato che occupa la penisola italiana rinuncerebbe a cifre che rappresenterebbero circa il 15% della spesa per la protezione sociale. Le detrazioni favorirebbero fasce di popolazione meno a rischio, traducendosi di fatto in risultati regressivi. L'A. ricorda anche come la politica fiscale per la casa si basi su un catasto di tipo reddituale: la base imponibile vi sarebbe determinata in base a un ipotetico canone di locazione. Valori aggiornati molto di rado, laddove i canoni di affitto sarebbero invece cresciuti a dismisura. Un disallineamento ineguale a seconda delle aree della penisola e a seconda del pregio degli immobili, per cui il patrimonio dei ricchi sarebbe tassato sempre meno. Nel saggio si propone invece la tassazione del cosiddetto "affitto imputato" -il reddito che un proprietario trae dalla casa in cui vive dal momento che non è costretto a corrispondere affitti- nella stessa misura dei rendimenti da investimento, in modo da non distorcere verso gli investimenti immobiliari le scelte di risparmio; si notano anche i limiti dell'esenzione fiscale per le abitazioni di residenza, dal momento che buone politiche locali possono essere capitalizzate nel valore delle case. Il fatto che la spesa pubblica abbondi di detrazioni invece la porterebbe a toccare solo marginalmente la popolazione più povera, e sostanzialmente a rispondere in primo luogo a necessità di consenso politico. L'imposizione sulle abitazioni successive alla prima privilegerebbe invece quelle lasciate vuote, soggette solo all'imposta patrimoniale e agevolando le locazioni in nero. La Gainsforth si dice favorevole a "un trattamento fiscale differenziato territorialmente e progressivo, in grado di scoraggiare l'abbandono di immobili in contesti di emergenza abitativa".
Sarah Gainsforth è convinta che la casa non sia una merce. Nel corso del libro ha più volte citato una riforma della legge urbanistica presentata da Fiorentino Sullo nel 1962 e mai arrivata alla discussione perché accolta da una intensa "mobilitazione individualista". Riprendendone lo spirito, "il settore pubblico dovrebbe assegnare a se stesso la titolarità dell’incremento di valore dei suoli, attraverso la costituzione di un demanio comunale con acquisti preventivi di terreni agricoli periurbani, variazioni nelle relative destinazioni d’uso, infrastrutturazione e vendita o concessione ai privati costruttori in diritto di superficie". Obiettivo, la demercificazione della casa e la restaurazione della sua funzione originaria. L'A. riporta l'esempio di Barcellona, che dal 2013 avrebbe smesso di vendere e avrebbe iniziato invece a comprare suolo, superfici e case e a proteggere "per sempre" gli alloggi sociali. Dotatasi di un osservatorio sul mercato immobiliare e di una cattedra universitaria, la municipalità avrebbe iniziato ad agevolare la costruzione di case in affitto a prezzi accessibili concedendo diritti di superficie (in modo da sganciare il valore del suolo da quello della casa), avvalendosi di una azienda edilizia municipale e imponendo in tutta la città quote di suolo per la costruzione di alloggi sociali, con diritto di prelazione per la municipalità stessa. Una serie di misure nata da esigenze di "decrescita turistica" e fatta propria con i necessari aggiustamenti anche da Londra, Parigi e Vienna. L'A. cita l'esperienza di agenzie per la casa in grado di garantire i proprietari tramite un fondo per la morosità, sporadicamente attive in alcune amministrazioni locali nella penisola italiana, e tratta dello strumento dell'esproprio ricordando il caso della Catalogna, in cui nel 2023 la Generalitat ha avviato l'esproprio delle case dei grandi proprietari che risultavano sfitte da oltre due anni. Dopo decenni di deregolamentazione, in Europa la disciplina dei canoni di affitto sarebbe tornata a essere un fatto ordinario e sistemico perché esito di politiche pubbliche volte a regolare interessi diversi e a conservare un equilibrio sociale, piuttosto che a usare il denaro dei contribuenti per alimentare il mercato speculativo.
Nell'ultimo capitolo la Gainsforth presenta due linee guida necessarie ad affrontare la questione abitativa. La prima è la volontà politica di riassegnare al pubblico la guida delle trasformazioni urbane, la seconda il ricorso a una varietà di misure e di soggetti. L'ostinazione con cui nella penisola italiana il pubblico delegherebbe al mercato la produzione di edilizia residenziale a costi accessibili senza ottenere risultati apprezzabili non sarebbe a suo modo di vedere un segno di ingenuità, ma indicherebbe "un certo furore ideologico" orientato in senso opposto a quello delle realtà europee. L'A. ripete che l'indebitamento delle amministrazioni comunali ammonterebbe a totali mimimi rispetto al debito complessivo e che la svendita del loro patrimonio immobiliare -aizzata negli ultimi anni da una valorizzatrice Invimit perentoriamente indicata dall'A. come "società parassita"- sarebbe giustificata solo dai continui tagli imposti da Roma e dal loro indebitamento con altri enti pubblici, primo fra tutti quella Cassa Depositi e Prestiti che dopo la parziale privatizzazione avrebbe assunto un approccio orientato al profitto iniziando a espropriare finanziariamente le stesse comunità che in origine serviva, praticando tassi di interesse superiori a quelli di mercato. La più che preoccupante situazione di Napoli descritta in chiusura dalla Gainsforth sarebbe un esempio coerente con le attese.
La Gainsforth conclude che aver alimentato per molti decenni il modello proprietario avrebbe finito per minare l'idea di una prosperità fondata sul lavoro con la convinzione di poter "campare sulla crescita dei valori immobiliari", incentivati anche dalle politiche fiscali. Una crescita in cui la domanda di case "a uso investimento" e la crescente concentrazione della proprietà nelle mani di pochi avrebbero messo in difficoltà il diritto ad abitare della stessa classe media, aggredita tra l'altro negli ultimi anni dalla "violenta risalita del costo del denaro" che si è ripercossa sui mutui a tasso variabile. Prima di auspicare una forte volontà politica favorevole all'affitto sociale, l'A. riassume le conclusioni del volume: nel corso del XX secolo sarebbero state adottate politiche pubbliche per la casa proprio davanti all'evidenza del fatto che il mercato non fornisce soluzioni. Ad oggi nella penisola italiana vigerebbero invece il capillare smantellamento delle politiche pubbliche e il dirottamento dei fondi pubblici a sostegno del mercato.
Sarah Gainsforth - L'Italia senza casa. Politiche abitative per non morire di rendita. Bari, Laterza 2025. 240pp.
Sarah Gainsforth - L'Italia senza casa. Politiche abitative per non morire di rendita
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