Una nazione bagnata di sangue si colloca a metà tra la memoria autobiografica e il saggio. Nel suo ultimo libro Paul Auster indaga il rapporto della società statunitense con le armi senza indulgere a invettive e senza demonizzazioni, nonostante fra il 1968 e il 2021 le armi da fuoco abbiano fatto negli USA un milione e mezzo di vittime dirette e abbiano indirettamente sconvolto l'esistenza di decine di milioni di persone, e nonostante il dramma familiare da cui prendono spunto le sue considerazioni. Al centro del libro c'è un lungo elenco di episodi efferati; nella quarantina di foto in bianco e nero di Spencer Ostrander compaiono i luoghi delle rispettive stragi. Scuole, chiese, centri commerciali entrati e usciti velocissimi dall'agenda mediatica, restituiti a una opinabile normalità oppure chiusi, cancellati, demoliti.
Fin dalle prime e più autobiografiche pagine il tema viene trattato sottolineando l'importanza dell'ambiente di origine nel rapporto con le armi; buon tiratore fin da ragazzino e buon spettatore dei "venti o trenta western a settimana" dispensati dalla televisione dei primi anni Cinquanta, Auster non avrebbe tuttavia trovato nulla, né in famiglia né nella periferia del New Jersey in cui viveva, che gli rendesse le armi interessanti. Solo da adulto e per un "inverosimile scherzo della sorte" Auster sarebbe venuto a conoscenza di quanto "la brutalità di un vero proiettile sparato in un vero corpo umano" avesse segnato la sua vita familiare.
Auster ricorda di aver incontrato individui all'apparenza privi di risvolti problematici, che si rivelavano capaci di puntare un fucile contro perfetti sconosciuti. "Mettete un'arma in mano a un folle e può succedere di tutto", scrive prima di sottolineare che nessuno avrebbe mai fornito risposte soddisfacenti su quale condotta si dovrebbe adottare quando un folle si presenta "sotto le spoglie di una persona qualunque, di buonsenso, che non cova risentimento né ce l'ha con il mondo intero". Nelle rimanenti pagine del libro, Paul Auster avrebbe invece cercato di indagare che cosa renda gli USA il Paese più violento del mondo occidentale.
Secondo Auster negli USA le armi da fuoco ucciderebbero in un modo o nell'altro ogni anno quarantamila persone e ne ferirebbero il doppio; le conseguenze dirette e indirette impatterebbero, come nel suo caso personale, sulla vita di milioni di individui. Considerando l'automobile e l'arma da fuoco come i due pilastri della mitologia nazionale statunitense, l'A. rileva che una minoranza di statunitensi avrebbe elevato le armi a feticcio, al punto che nel Paese ne circolerebbero quasi quattrocento milioni. Nella ricerca di un perché, Auster compie un excursus su una storia statunitense che, dai primi insediamenti del XVII secolo fino a oggi, in ogni suo capitolo avrebbe presentato una combinazione di "paura unita a violenza, con i proiettili come primo mezzo cui affidarsi". Il terzo capitolo del libro considera criticamente la Dichiarazione di Indipendenza spesso citata dagli estimatori della realtà statunitense, ricordando l'ipocrisia di fondo della schiavitù che sarebbe prosperata per decenni dopo il 1777. Sulla sua esistenza si sarebbe sorvolato pur di costituire un fronte compatto contro l'Impero Britannico; un articolo della Costituzione in cui uno schiavo sarebbe contato come tre quinti di essere umano avrebbe poi consentito agli stati del sud di essere sovrarappresentati al Congresso, viziando fin dalle origini il funzionamento della democrazia. Auster ricorda anche il secondo emendamento su cui si fonderebbe il diritto dei singoli di possedere armi: il bear arms in esso contenuto, nella storia della lingua inglese, si sarebbe sempre riferito al solo contesto militare e fino a una sentenza del 2008 -di strettissima misura favorevole al singolo individuo- anche il legislatore statunitense si sarebbe attenuto a questa interpretazione. Ripercorrendo con esempi la storia della legislazione, l'A. ricorda come il controllo sulle armi da fuoco a livello cittadino fosse rigoroso anche ai tempi dei saloon e dei duelli alla pistola e di come il vecchio West fosse "un luogo ben più civile, pacifico e sicuro" della società statunitense odierna. Auster nota l'esplosione di violenza che avrebbe accompagnato il proibizionismo e come le prime leggi federali che tassavano pesantemente le mitragliatrici fossero coincise con la sua abrogazione, e indica nel proibizionismo un esempio di come non comportarsi a fronte di una crisi nazionale.
Nel ventunesimo secolo secondo Auser le stragi sarebbro entrate a far parte della normalità mediatica. A differenza dell'azione di un sicario, di un aspirante gangster o di quella di chi è mosso da gravi rancori nei confronti di un individuo in particolare, le stragi sfiderebbero ogni comprensione; l'A. sottolinea anche il loro essere generalmente risultato di una pianificazione accurata. L'annientamento di perfetti sconosciuti si sarebbe trasformato oggi "in uno sport competitivo, in una nuova e sinistra variante di arte performativa contemporanea". Auster considera la strage, per lo più opera di giovani dal comportamento già disturbato e dalla vita molto segnata dalla solitudine- come il dono più recente della cultura statunitense al mondo, "la postilla psicopatica a meraviglie precedenti quali la lampadina a incandescenza, il telefono, la pallacanestro, il jazz e il vaccino antipolio". Benché la lobby delle armi e la National Rifle Association sostengano l'utilità delle armi contro le propensioni stragiste, Auster è convinto -e dato il contesto ammette tranquillamente di riconoscere il suo come un pio desiderio- che "togliere le armi ai cosiddetti cattivi anziché armare i cosiddetti buoni" sia l'unica solizione possibile.
Auster ricorda infine come le Black Panthers abbiano inconsapevolmente contribuito alla nascita del movimento per il diritto alle armi da fuoco. La questione delle armi sarebbe stata nevralgica negli ultimi cinquant'anni di deriva di destra privi di freni sostanziali, in cui si sarebbe affermato il dominio incontrastato di una "ideologia capitalista regressiva" come il neoliberismo insieme alla profonda e diffusa interiorizzazione dell'idea di Ronald Reagan per cui un governo non sarebbe una soluzione ai problemi ma parte di essi. In una democrazia basata su «Noi, il popolo», significherebbe che "il problema siamo proprio noi", chiosa ironicamente Auster. Nel 1967 le Black Panthers si erano armate per autodifesa e avrebbero cercato di impedire che il parlamento della California abrogasse la norma che lo permetteva. Sull'onda della violenza dilagante negli anni successivi la legislazione sarebbe stata modificata in senso restrittivo anche a livello federale, e la National Rifle Association avrebbe abbandonato il proprio carattere di associazione di tiratori per trasformarsi in una lobby facendo proprie le argomentazioni delle Black Panthers... e dirigendole contro la criminalità, anziché contro una repressione composta quasi per intero da bianchi. Ironicamente, "un movimento a prevalenza bianca, rurale e conservatrice" avrebbe cambiato forma "sposando la filosofia di un gruppo nero, urbano e rivoluzionario". Secondo Auster, il problema delle armi -in un clima politico in cui la proposta di limitarne l'accesso e la diffusione viene ritenuta irricevibile- dividerebbe la popolazione statunitense rispecchiando il sempiterno conflitto tra la necessità di proteggere i diritti e le libertà individuali e quella di proteggere gli interessi del bene comune.
Paul Auster - Una nazione bagnata di sangue. Fotografie di Spencer Ostrander. Einaudi, Torino 2024. 128pp.
Paul Auster - Una nazione bagnata di sangue
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