Susan Neiman si considera una socialista di sinistra e ricorda un'epoca neanche troppo lontana in cui negli stessi USA in cui oggi anche il vocabolo "liberale" ha assunto sfumature spregiative quella di socialista era "una rispettabilissima posizione politica". In "La sinistra non è woke" Susan Neiman intende mostrare, in ottica filosofica, come la sinistra odierna abbia abbandonato ogni idea essenziale per il suo orientamento -al punto che temi come l'universalismo, la separazione dei poteri e la fiducia nel progresso sarebbero pressoché scomparsi dal discorso politico- per dedicarsi invece a una difesa a oltranza di alcuni diritti civili che avrebbe sostanzialmente tolto dal suo arsenale qualsiasi idea utile a evitare massicci sbandamenti dalla parte opposta. L'A. constata la pessima fortuna del vocabolo woke, originariamente riguardante l'esortazione a stare in guardia contro il razzismo e contro le ingiustizie e rapidamente diventato un vocabolo offensivo in seguito alla sua adozione come criterio da parte delle grandi aziende e soprattutto dopo essersi tradotto in una politica di simboli anziché di concreto cambiamento sociale. La Neiman indica storture e limiti dei criteri woke adottati dai mass media e dal mondo politico evidenziando alcuni esiti gravemente paradossali. Nei casi normali, l'origine etnica sarebbe considerata in grado di determnare le idee politiche e influirebbe sulla sorte dei singoli in misura maggiore e più frequente che non le competenze. Nei casi di buona rilevanza, come quello del più variegato esecutivo della storia britannica capeggiato da Liz Truss, i criteri woke non avrebbero impedito a chi ne aveva tratto vantaggio di promuovere le politiche più conservatrici che si fossero mai viste. La Neiman intende occuparsi dell'argomento in modo divulgativo e alla portata di un pubblico non specialista.
Il primo capitolo tratta dei concetti di universalismo e di tribalismo. L'A. nota la recente diffusione di quella che definisce essenzializzazione degli individui, ovvero la riduzione della loro identità a poche componenti esteriori facilmente categorizzabili, per lo più quelle su cui gli individui hanno meno controllo in assoluto. La Neiman considera poi le storture che da qualche decennio connoterebbero gli esiti della narrativa storica e sociale dominante e centrata sulle vittime: la condizione di vittima -riflette citando la biografia di Jean Améry- dovrebbe essere un mezzo per presentare legittime richieste di riparazione, non una condizione onorevole come tale. Una politica che valorizzasse i traumi porterebbe quindi a esiti di espressione personale più che di cambiamento sociale, e non sarebbe inoltre postulabile a priori alcun legame tra condizioni di sofferenza e di impotenza e comprensione critica del reale. Le pretese di autorità dovrebbero tornare a basarsi "su cosa ha fatto una persona per il mondo, e non su cosa il mondo ha fatto a lei", principio invece su cui si baserebbero cose come il peggior bellicismo sionista. La Neiman definisce il tribalismo come una espressione del degrado civile che si verificherebbe nei casi in cui la diversità umana viene ridotta a quella tra una categoria -la propria- e il rimanente del mondo; una posizione cui rischierebbe di approdare chi diffida dell'universalismo illuministico e del suo concetto di umanità pensando che esso nasconda "uno specifico interesse europeo a conquistare il potere in un nondo sempre meno bianco", dimenticando (o non avendo mai saputo) che i pensatori illunministi -Voltaire su tutti- sarebbero stati fra i primi ad attaccare l'eurocentrismo e il colonialismo e a lavorare per modificare sensibilmente la realtà del loro tempo. L'A. ricorda che l'illuminismo -nel cui universalismo tutti sarebbero dotati di una innata dignità da rispettare- avrebbe avuto il potere di correggere gran parte dei suoi stessi errori tramite quella stessa autocritica di cui sarebbe stato l'inventore. Proprio la percezione delle ingiustizie e delle storture ammesse in Occidente avrebbe spinto gli illuministi a interessarsi, nei limiti dell'allora possibile, ad altre culture. Nel tribalismo le richieste delle minoranze diventerebbero diritti di gruppi specifici e non diritti umani, cosa che farebbe il gioco della destra perché nella stessa prospettiva nulla impedisce a una maggioranza di insistere sulle proprie. Una prospettiva tribalista non sarebbe utile nemmeno per affrontare problemi strutturali: la Neiman rileva che nonostante le proteste del Black Lives Matter in alcuni stati degli USA i criteri per essere ammessi al mestiere di parrucchiere continuerebbero a essere più stringenti di quelli per essere ammessi nelle forze di polizia. Il fatto che gli USA sostengano di fondarsi su una serie di ideali renderebbe la realtà ancor più dissonante.
Nel secondo capitolo del saggio la Neiman risponde alle critiche più frequenti verso la nozione illuminista di ragione, sottolineando in primis come l'esclusiva dedizione a smascherare il presente che è coessenziale al tribalismo lascerebbe la sinistra senza risorse per una pianificazione del futuro. La Neiman prende le mosse da questa considerazione per affrontare i temi del potere e della giustizia, soprattutto nell'accezione che essi hanno in Foucault. La propensione di Foucault a vedere in un potere ubiquo l'unico motore andrebbe di pari passo con una svalutazione dell'illuminismo che considererebbe la ragione un mero strumento ed espressione del potere, negando anche le distinzioni tra violenza e persuasione e tra persuasione e manipolazione. I pensatori illuministi avrebbero anzi usato la ragione per sottoporre ad attento esame qualsiasi fenomeno venisse considerato o presentato come naturale e per estensione come ineluttabile. Ragione e libertà presenterebbero quindi varie contiguità e connessioni; senza nascondersi i limiti della ragione, gli illuministi avrebbero semplicemente voluto che a tracciarli non fossero la chiesa o lo stato. Un atteggiamento che la Neiman considera da rivalutare, in un'epoca in cui "gli esperti di economia annunciano che non c’è alternativa al neoliberismo, e sostengono la presunta naturalezza della loro ideologia con la teoria evoluzionistica" e in cui resta necessario, davanti al montare dei luoghi comuni per cui la realtà dei fatti sarebbe un punto di arrivo, dimostrare come con idee razionali la realtà sia possibile cambiarla. Susan Neiman nota che i pensatori progressisti avrebbero sviluppato molto interesse verso la critica alle storture del liberalismo di Carl Schmitt, sorvolando su dettagli come la sua definizione del Nemico come "l'altro", sul suo "deleterio, rozzo e pomposo antisemitismo" e sul suo concetto di "valore" come surrogato positivistico del metafisico. Tutti costrutti che Schmitt avrebbe difeso anche decenni dopo la fine del nazionalsocialismo. Per contro i diritti umani, qualunque cosa siano e per quante distorsioni siano state fatte nell'appellarsi ad essi, andrebbero considerati rivendicazioni tese a frenare ogni tentativo di affermare il potere in sé e per sé. La Neiman sottlinea però come i continui cattivi esempi e l'ampia aneddotica su lotte per il potere elegantemente travestite abbiano prodotto un clima sociale in cui la maggior parte delle persone ritiene che imporre i propri interessi ammantandoli di morale retorica "faccia semplicemente parte della natura umana" e in cui sarebbe tornato a dominare il principio per cui gli ordinamenti sociali sarebbero mero frutto di determinismo biologico. La Neiman non apprezza affatto la psicologia evoluzionista e nota come dichiarare l'esistenza di un egoismo universale -altro postulato ideologico all'apparenza inscalfibile e alla base delle concezioni tribaliste, anche se oggi verrebbe rivendicato riducendo al minimo le affermazioni più drastiche- comporti il "problema dell'altruismo". Basterebbe qualche autoriflessione per convincere chiunque che il comportamento umano -con la esplicita eccezione di Donald Trump- non è sempre in linea con quanto predicato dall'ideologia dominante: "ci preoccupiamo di affermare la verità, non solo di mantenere il potere; spesso agiamo nel rispetto altrui, per interessi non materiali; ed è raro che il nostro comportamento sia guidato dall’impulso a riprodurre il più volte possibile una nostra copia (o immagine)".
Secondo la Neiman, la differenza sostanziale tra destra e sinistra consisterebbe nell'idea che un progresso sia possibile. La sinistra sarebbe caratterizzata dalla credenza per cui sarebbe possibile collaborare per il miglioramento delle condizioni di vita proprie e altrui. Fuori da questa prospettiva la politica diventerebbe mera lotta per il potere. Il saggio presenta in molte pagine una critica serrata a pensatori come Michel Foucault, che avrebbero indotto la maggior parte dei loro lettori a credere che ogni passo avanti si trasformi in un passo indietro verso una totale sudditanza. L'A. critica in Foucault soprattutto l'idea per cui qualsiasi riformatore finirebbe per contribuire alla costruzione di sistemi di controllo e di potere meno brutali ma più efficaci, e le conclusioni in linea con quel pensiero reazionario che invierebbe ammonimenti apocalittici contro chiunque pensasse di poter mettere in discussione lo stato di cose presente. Il fatto che il progresso non sia inevitabile e che in esso non esista un percorso lineare, scrive la Neiman, si presterebbe bene all'intento di quanti volessero demolirne la credibilità. L'A. ricorda con numerose citazioni che il pensiero illuminista avrebbe ammesso la possibilità del progresso, non la sua ineluttabilità, per quante caricature possano circolarne. Agli attivisti woke l'A. rimprovera il rifiuto dell'universalismo e l'accettazione di una visione del potere come lotta per il potere stesso. Lo smascheramento delle ingiustizie, senza una prospettiva universalista, si ridurrebbe quindi a un esercizio fine a se stesso e a una sorta di gara di scaltrezza. Il testo presenta riflessioni su vari casi legati alla storia contemporanea statunitense in cui l'A. considera tangibile un progresso nell'accezione da lei considerata, e in cui allo stesso modo risulterebbe evidente il deliberato superamento dei limiti imposti dallo stato di cose.
Nelle conclusioni Susan Neiman asserisce nuovamente che "i woke" sarebbero stati "colonizzati a loro vosta da una sfilza di ideologie appartenenti in realtà alla destra" e riporta una serie di considerazioni sulla vita quotidiana degli statunitensi, che a suo modo di vedere si svolgerebbe in condizioni tali da generare una rabbia costante e senza prospettive di sfogo costruttivo, data la perdita di qualsiasi riferimento utile in questo senso e l'assenza di diritti sociali sostituiti da benefits dipendenti dalla buona grazia dei padroni. L'A. nota anche il crescente divario tra la realtà e i miti di quella eccezionalità statunitense che si trova al centro della propaganda politica: gli europei rimarrebbero "talmente allibiti" dalla brutalità del sistema sociale statunitense "da non sapere bene come parlarne nei loro paesi". L'assenza di prospettive sarebbe alla base del primato del neoliberismo, che appare alla Neiman come un liberalismo privato dell'umanesimo; l'astrazione immaginaria di Stuart Mill e del suo homo oeconomicus sarebbe diventata l'unico modello di essere umano concepibile in una realtà che lo traveste da buon senso, che si rapporta in termini e in parametri di mercato a qualsiasi aspetto dell'esistenza e in cui sarebbe la norma essere trattati come merci. Sostenere il "non ci sono alternative" significherebbe qui avallare la sovranità territoriale e i fenomeni identitari come unici destinatari delle speranze di cambiamento. La Neiman rileva anche il limite della prospettiva per cui "il personale è politico", dato dal considerare politico soltanto il personale; la veemenza con cui verrebbe difeso il "linguaggio inclusivo" nasconderebbe la paura di non poter influire sulla realtà in altro modo.
Oltre all'universalismo, alla distinzione tra giustizia e potere e all'ammissione della possibilità del progresso la sinistra dovrebbe recuperare anche la coltivazione del dubbio: attenuare la devozione ai propri princìpi di base (mettendo il dubbio la loro traduzione operativa) permetterebbe di prevenire molti danni.
Susan Neiman - La sinistra non è woke. Un antimanifesto. Torino, Utet 2025. 180pp.
Susan Neiman - La sinistra non è woke. Un antimanifesto
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