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ivergenze d'opinione in materia di ultras e diffide, Firenze, estate 2008


All'inizio di ottobre i giornali pubblicano la notizia di una retata nel napoletano. Fatta la doverosa tara sulla veridicità delle informazioni, cosa inevitabile in considerazione dell'abituale atteggiamento giornalaro che mescola imprecisioni e sciacallaggio, voglia di linciaggi e malafede in un cocktail micidiale e vergognoso, pare che rappresentanti istituzionali e ultras abbiano coordinato le giornate di scontri di piazza che hanno costellato l'"emergenza" rifiuti nel napoletano, nei primi mesi del 2008.
Da più di un secolo un gioco in cui ventidue tizi in mutande in mezzo ad un campo si contendono a pedate un arnese rotondo che non sta mai fermo costituisce argomento o pretesto per un continuum di relazioni sociali compreso tra la discussione amichevole e la guerra tra stati sovrani (è successo davvero, nel 1969). La pervasività dell'argomento è arrivata al punto che, discorrendone, è ammesso ormai che in alcuni contesti prenda la parola chi si riconosce nel minoritario campione di dissidenti per i quali le sei diagnosi sul menisco di Del Piero o la media gol a partita di Paulo Roberto Cotequinho non hanno alcun interesse, ma qui finisce il diritto al contraddittorio. Guai scoperchiare il calderone di bassezze che non appesta soltanto il calcio televisivo, ma che da decenni ha esteso la sua influenza fino all'ultimo dei campetti di periferia. Non soltanto i (moltissimi) soggetti che traggono a tutti i livelli un utile dal settore, ma anche gli spettatori occasionali, i tifosi per sentito dire che i lavoratori dei mass media scelgono con ogni cura quando devono intervistare qualcuno, dicotomizzano tra i cosiddetti "professionisti" oggetto di attenzione mediatica, riconosciuti come discutibili, ed il mondo di quelli che si chiamavano "amatori" (e che oggi non possono più essere definiti in questo modo, visto che i termini "amatore" ed "amatoriale" fanno pensare soltanto alla pornografia casalinga), considerati, come i ragazzini delle "scuole calcio", praticamente intoccabili: degli idealisti integerrimi che quando giocano ci mettono l'anima.
Chi scrive non è di questa opinione e ritiene che il mondo del calcio sia qualcosa da cui non farsi sfiorare neppure per sbaglio. Una realtà stigmatizzante dove la pretesa distinzione di "valori" e comportamenti tra professionisti mediatici e serie minori non esiste affatto.
Nel 1988, a sedici anni, frequentavamo nientemeno che il circolo ACLI di un paese a sud di Firenze; si potrà immaginare che clima cospirativo e che fervore di attività sovversive. Una sera di tarda primavera, verso le nove, dal campo da calcio dietro il circolo arriva un crescendo di strepiti, strilli e fracasso di varia natura. "Ma che succede là fuori?!" "Come, non lo sai? Tutti i giovedì c'è la partita degli amatori; va sempre a finire che rincorron l'arbitro e gli dànno un monte di botte...". In vent'anni non è che la situazione sia migliorata gran che; nelle giornate di ordinaria amministrazione gli spettatori dei campetti dànno di solito fondo, oggi come ieri, ad una panoplia di insulti degna d'un carrettiere dei bei tempi, che dalla mamma alla Madonna vanno a cercare parenti più o meno lontani e figure più o meno note dell'apparato divino cristiano con uguale e pittoresca disinvoltura. Questo, in giornate di ordinaria amministrazione. Nella pratica un niente, in campo e fuori, basta per passare all'azione contro il primo che càpita, arbitro, giocatore o tifoso che sia. Questo molto in sintesi e senza enumerare alcuno tra le centinaia di episodi -alcuni dei quali d'una violenza inaudita- che si verificano tutti gli anni proprio in serie minori e in campionati di ennesima categoria. Postulare un calcio professionistico discutibile ed uno non professionistico sano per definizione e dunque intoccabile vuol dire ammettere che i due settori siano praticamente stagni. Cosa assolutamente insostenibile per più motivi.
In primo luogo, il calcio televisivo ed il calcio chiacchierato forniscono una prima socializzazione alla materia anche a bambini piccolissimi, in un processo sociale in cui i meccanismi di identificazione nei confronti del campione di turno sono soltanto uno degli aspetti più noti, e probabilmente neppure il più importante. Il calcio mediatico rappresenta terreno comune per il sostenimento di atteggiamenti e di conversazione ed in molti casi è perfino materia di primissima importanza per la costruzione dell'identità personale in soggetti che lo praticano anche attivamente, nella scala in cui questo è loro possibile. Va dunque concepito come un fenomeno unico e senza distinzioni che sono in realtà funzionali solo al mantenimento di un'immagine presentabile e che non danneggi le sue quote di mercato. Anche in tempi in cui i gadget della serie A non avevano ancora appestato i luoghi più remoti del mondo (abbiamo visto maglie del Milan nello Yemen ed in Tagikistan) era facile trovare in giro ragazzini di otto-dieci anni capaci, al lunedi mattina, di ripetere in ordine cronologico tutti i goal degli incontri giocati la domenica precedente. Una nostra conoscenza, coetaneo negli anni Ottanta, accompagnava questo tipo di competenze ad un rapporto pressoché esclusivo con il pallone (solitamente un "Super Tele" rosso o blu) isolandosi dall'ambiente circostante e palleggiando per centinaia di volte tutte in fila, per interi pomeriggi. Non finì gran che bene: anni dopo il solito menisco incrementò di una unità il numero di quelli che se non era che mi facevo male al ginocchio a quest'ora giocavo in serie A. Anni dopo ancora, la diagnosi di un disturbo psichiatrico piuttosto serio mise nel suo caso fine anche alla prospettiva di un'esistenza equilibrata. E questo porta ad un'altra conclusione interessante. Il calcio come alimento per l'immaginario e per la quotidianità di soggetti portatori di potenziali disturbi del comportamento, secondo una prassi abitualmente facilitata dal contesto sociale.
Vito Piazza è stato l'ultimo direttore della scuola speciale Treves de Sanctis di Milano e nel 1992 ha scritto per Baldini & Castoldi un volumetto di racconti sulla sua esperienza. Uno dei protagonisti delle storie è un ragazzo di una quindicina d'anni nato nell'estremo sud della Sicilia. Normalissimo nell'aspetto e nei modi, tanto che Piazza si chiedeva perché mai fosse finito in una scuola destinata a persone di ben altra problematicità. I due scambiano qualche parola: dopo la scuola, il ragazzo giocava a pallone. A San Siro. Insieme a Zoff, Gentile, Cabrini, Bonini, Brio, Scirea... Tutti campioni di quegli anni che ogni pomeriggio, non avendo altro da fare, andavano a giocare con lui. Cos'era successo? Era successo che le persone con cui questo ragazzo si relazionava abitualmente, coetanei ma non soltanto, per anni e anni lo avevano rinforzato nelle sue convinzioni deliranti, per i motivi più vari. Contribuendo, probabilmente con piena consapevolezza, a ridurre ad un drop out un individuo che al contrario avrebbe avuto bisogno di robustissime iniezioni di realtà.
Al di là del caso limite su riportato, il calcio costituisce argomento monolitico di conversazione, e spesso anche di pratica extrascolastica e poi extralavorativa, di strati amplissimi di una popolazione che finisce in mille modi ad alimentare il gigantesco indotto della macchina mediatica che gli sta dietro, e dalla quale -ripetiamo- la partitella al campetto non è affatto altera res.
Un pomeriggio in un campo di allenamento permette di rendersi conto dell'esistenza consolidata di rapporti venali, di accessi nemmen tanto ritualizzati di aggressività e di competitività demenziale secondo schemi ricalcati sull'esempio mediatico fin dalle prime leve calcistiche per i bambini delle elementari. Sugli spalti si affollano genitori che considerano testualmente la pratica del calcio come una "scuola di vita", dove il vocabolo "vita" va inteso in senso "occidentale" di terreno di scontro nel quale sgomitare è lecito, imbrogliare un dovere, fregarsene di tutto il resto un postulato. Sicché vanno giù pesanti con consigli sanguinari e con propositi truculenti, di pari ferocia rispetto a quelli che è dato sentire negli stadi di prima divisione. I processi di socializzazione mediati dal calcio portano alla formazione di gruppi caratterizzati dalla polarizzazione e dalla diluizione della responsabilità individuale, costruendo in campo (in tutti i campi) e sulle tribune (su tutte le tribune) ambienti in cui può accadere -e spesso accade- di tutto.
La pretesa che la pratica diretta del calcio sia esente dagli immondi vizi del calcio mediatico, dunque, non sta in piedi. Anche perché per gli ultimi trenta e più anni il comportamento degli spettatori fuori e dentro gli stadi, con i report dettagliati di fatti di cronaca quasi sempre improntati a comportamenti piuttosto scomposti per non dir di peggio, ha costituito parte integrante del prodotto mediatico calcio, quello che interagisce quotidianamente, nei processi sociali, con la pratica del gioco e con i fenomeni che la accompagnano in campo e fuori.
La situazione ha conosciuto un peggioramento molto recente.
Negli ultimi anni i soldi che contano -quelli del miliardario australiano Rupert Murdoch- si sono comprati in blocco il format del più importante campionato professionistico. Roba che arriva a pagamento e che crea indotto fino alle yurte kirghise, ai paesini del Senegal. La tutela dell'interesse del signor Murdoch passa attraverso un'esigenza molto elementare: lo spettacolo non deve essere disturbato né nella qualità, né nei tempi. Niente fumogeni, niente striscioni capaci di distogliere clienti sensibili alla correttezza politica e via di questo passo. Gli spettatori devono limitarsi ad un lavoro da comparse. Comparse che per giunta pagano anche, e nemmeno poco. Chiaro che il supporter calcistico, da trent'anni abituato a comportarsi come gli pare e legittimato in questo dalla generale acquiescenza (acquiescenza dovuta sostanzialmente al denaro che i tifosi muovono) accolga molto male la fine della situazione che gli ha fornito praticamente tutto il proprio bagaglio culturale, modelli di consumo per primi. I gruppi strutturati e gerarchici che hanno prosperato nella brodaglia sociale delle periferie, nel nulla culturale tanto diffuso quanto caldeggiato e addirittura apertamente promosso dal potere politico e da quello economico, gli individui che da una vita utilizzano le competenze sociali fornite dal calcio per rapportarsi con quanto rimane dell'esistente vedono ridurre drasticamente l'efficacia degli strumenti con cui hanno costruito la propria realtà. Il prodotto mediatico li espelle: dalla sera alla mattina li trova controproducenti e li mette all'angolo senza misericordia. Un comportamento da figlio ingrato.
Contemporaneamente a questo profondo cambiamento, che ha preso a pretesto la morte di Filippo Raciti e si è tradotto nella militarizzazione degli stadi e dei loro dintorni tale che andare a vedere una partita ricorda un po' l'attraversare il confine tra Palestina ed Israele, i gruppi più o meno formali detti "tifoserie organizzate" hanno cominciato a trasferirsi altrove, cercando occasioni meno blindate e trovandole nelle altre serie del campionato, in cui si sono intensificate le occasioni di intervento per la gendarmeria. Occasioni di intervento che ricevono puntuale copertura mediatica, proprio come prima.
La questione non è soltanto sociopsicologica. Ha anche risvolti economici di primaria importanza ai quali si dovrebbe dedicare uno scritto a parte, così come andrebbe fatto per i rapporti tra mondo del calcio in generale e mondo politico. Lo stesso andrebbe fatto con l'intera costellazione di fenomeni paracalcistici e con la loro funzione di convogliatore dell'aggressività verso obiettivi relativamente poco disturbanti per il potere costituito. Qui è solo il caso di affermare che il calcio nella sua interezza rappresenta a tutti i livelli un vero e proprio ostacolo all'ampliamento delle proprie prospettive ed all'arricchimento dei propri interessi culturali e delle proprie esperienze sociali perché intrappola rapidamente sia il praticante che lo spettatore in un contesto in cui la definizione polarizzata dell'identità con l'aggressività decerebrata che ne consegue e la ripetizione ecoica di quanto riportato dalle fonti mediatiche hanno il sopravvento su tutto il resto, imponendo l'adesione a ruoli semplicistici caratterizzati da poche variabili, i cui valori possono essere rappresentati secondo spietate scale di tipo discreto: ad esempio, in ambienti sociali vastissimi non è ammesso che ad un ragazzino il calcio non interessi. Chi confermasse questo disinteresse rischierebbe di trovarsi nella situazione ritratta in Ovosodo (1997) dove il protagonista Piero Mansani ricorda: "Vivevo in un ambiente che non ammetteva sfumature: un congiuntivo in più, un dubbio esistenziale di troppo e venivi bollato per sempre come finocchio...!". Il calcio va inteso dunque come una possente forza che livella verso il basso grazie alla doppia presenza e alla doppia pressione di fonti mediatiche e di gruppi sociali, come agenzia di formazione di schiavi integrati, di consumatori invece che di individui, di gruppi omogenei spinti alla sostanziale condivisione di meri comportamenti di consumo.