Traduzione da Strategic Culture, 18 marzo 2024.
 
Se ripenso a quanto andavo scrivendo nel 2012 nel bel mezzo della cosiddetta Primavera araba e delle sue conseguenze, è sorprendente quanto la regione sia cambiata. Ha fatto praticamente una virata di centoottanta gradi.
All'epoca sostenevo che
 
Il "risveglio" della Primavera araba sta prendendo una piega molto diversa rispetto all'entusiasmo carico di promesse con cui era stato accolto al suo inizio. Nata dapprincipio da una spinta popolare di ampia portata, essa sta cambiando di senso venendo sempre più intesa -e temuta- come una nascente "rivoluzione culturale" controrivoluzionaria; una reinculturazione della regione all'insegna di un canone prescrittivo che sta facendo venire meno le alte aspettative iniziali...
Quell'anelito popolare associato al "risveglio" è stato ora convogliato e assorbito in tre grandi progetti politici connessi a questo impulso per riaffermare [la supremazia sunnita]: un progetto dei Fratelli Musulmani, un progetto saudita-qatariota-salafita e un progetto [jihadista radicale].
Nessuno conosce veramente se la natura del [primo progetto], quello della Fratellanza, sia quella di un piano settario o se sia veramente di massa... Ciò che è chiaro, tuttavia, è che il tono della Fratellanza ovunque è sempre più quello delle espressioni di risentimento del settarismo militante. Il progetto congiunto saudita-salafita è stato concepito come diretto contrasto al progetto dei Fratelli Musulmani - e [il terzo] è il radicalismo sunnita intransigente [il wahhabismo], finanziato e armato dall'Arabia Saudita e dal Qatar, che mira non a contenere ma piuttosto a sostituire il sunnismo tradizionale con la cultura del salafismo, cioè a cercare di infondere lo spirito salafita nell'Islam sunnita tradizionale.
Tutti questi piani, pur presentandosi come sovrapponibili in alcune parti, sono fondamentalmente in competizione tra loro. E [sono] in corso in Yemen, Iraq, Siria, Libano, Egitto, Nord Africa, Sahel, Nigeria e Corno d'Africa.
[Non c'è da sorprendersi se] ...gli iraniani interpretano sempre di più lo stato d'animo dell'Arabia Saudita come animato da uno schietto bellicismo, e le dichiarazioni dal Golfo hanno spesso un tocco di isteria e di aggressività: un recente editoriale del quotidiano saudita al-Hayat affermava: "Il clima nel CCG [Consiglio di Cooperazione del Golfo] indica che tutto lascia presagire un confronto CCG-iraniano-russo sul suolo siriano, simile a quello che ebbe luogo in Afghanistan durante la Guerra Fredda". Di sicuro è stata presa la decisione di rovesciare il governo siriano, in quanto esso è vitale per l'influenza regionale e per l'egemonia della Repubblica Islamica dell'Iran".
 
All'epoca così stavano le cose. Oggi il panorama è molto diverso: I Fratelli Musulmani sono diventati l'ombra di se stessi; l'Arabia Saudita ha effettivamente smesso di tenere in agenda il jihadismo salafita e si concentra più che altro sul turismo, e il Regno è adesso giunto -grazie alla mediazione cinese- a un accordo di pace con l'Iran. Come ho scritto nel 2012,
il mutamento culturale che portasse a reinventare una politica musulmana sunnita di più ampio respiro è sempre stato un sogno statunitense, e risale al documento politico "Clean Break" di Richard Perle del 1996: un rapporto commissionato dall'allora primo ministro sionista Netanyahu. Il suo fondamento risale alla politica britannica del secondo dopoguerra, che prevedeva il trapianto nel Golfo di solide famiglie di notabili dell'epoca ottomana per costituire una classe dirigente filobritannica al servizio degli interessi petroliferi occidentali.
Ma guardate invece cosa è successo; una piccola rivoluzione. L'Iran è tornato sulla scena e si è saldamente affermato come potenza regionale. Adesso è il partner strategico di Russia e Cina. Gli Stati del Golfo sono oggi più preoccupati dagli affari e dalla tecnologia che dalla giurisprudenza islamica. La Siria, presa di mira dall'Occidente e retrocessa a paria regionale, è stata riaccolta con i massimi onori negli ambienti della Lega Araba, ed è in procinto di tornare a riprendere in Medio Oriente il ruolo di un tempo.
L'aspetto interessante è che già allora erano evidenti le avvisaglie dell'imminente conflitto tra stato sionista e palestinesi; come ho scritto nel 2012,
 
Negli ultimi anni abbiamo sentito i sionisti insistere per il riconoscimento del loro come di uno Stato nazionale specificamente ebraico, piuttosto che di uno stato sionista in sé. Uno Stato ebraico che, in linea di principio, rimarrebbe aperto a qualsiasi ebreo che volesse tornarvi; la creazione di una "umma ebraica", per così dire.
Ora, sembra che almeno nella parte occidentale del Medio Oriente esista una tendenza speculare che chiede la rifondazione di uno stato sunnita più ampio, che rappresenti la chiusura dei conti con gli ultimi resti dell'era coloniale. Vedremo intensificarsi la contesa come una lotta primordiale tra simboli religiosi ebraici e islamici tra al-Aqsa e il Monte del Tempio?
Sembra che sia lo stato sionista che i territori che lo circondano stiano ricorrendo in misura sempre crescente a un linguaggio che li porta lontano dai concetti di fondo, in gran parte laici, con cui questo conflitto è stato tradizionalmente rappresentato. Quali saranno le conseguenze se il conflitto, per sua stessa logica, diventerà uno scontro tra poli religiosi?
 
Cosa ha determinato questa virata di centoottanta gradi? Sicuramente un primo fattore è stato il limitato intervento della Russia in Siria allo scopo di evitare un'avanzata degli jihadisti. Il secondo è stato l'arrivo sulla scena della Cina come partner commerciale davvero gigantesco -e anche come presumibile mediatore- proprio quando gli Stati Uniti hanno iniziato il loro ritiro dalla regione almeno nel senso di un affievolirsi dell'attenzione, se non (ancora) di allontanamento fisico sostanziale. Il ritiro dei militari statunitensi da Iraq e Siria, in ogni caso, sembra più una questione di quando piuttosto che di se. Tutti stanno aspettando che succeda.
In parole povere, abbiamo assistito al cambiamento in uno di quelli che Mackinder avrebbe definito un perno geografico della storia: Russia e Cina -con l'Iran- stanno lentamente prendendo il controllo del cuore dell'Asia sia a livello istituzionale che economico, mentre il punto di gravitazione dell'Occidente se ne allontana.
Il mondo sunnita marcia ineluttabilmente e con cautela verso i BRICS. In effetti, il Golfo si trova in grave difficoltà a causa dei cosiddetti "Accordi di Abramo" che lo hanno legato al settore tecnologico dello stato sionista, che a sua volta sta facendo confluire verso i paesi del Golfo una notevole quantità di denaro gratuito da parte di Wall Street.
Il "sospetto genocidio" -come lo chiama la Corte internazionale di giustizia- dello stato sionista a Gaza sta lentamente inchiodando al cuore il modello di business del Golfo.
Ma un altro fattore chiave è stato dato dalla avveduta diplomazia di cui ha dato prova l'Iran. È facile per chi in Occidente auspica la linea dura contro l'Iran deplorare la politica e l'influenza iraniana nella regione: la Repubblica Islamica in effetti si rivela cocciutamente "non conforme" agli obiettivi degli Stati Uniti e alle ambizioni filosioniste per il Medio Oriente. Ma cos'altro ci si poteva aspettare di diverso da una reazione negativa, dato che l'intero potenziale di fuoco dell'Occidente era a tal punto concentrato sulla Repubblica islamica? Eppure, l'Iran si è comportato con astuzia. NON è entrato in guerra contro gli Stati arabi sunniti in Siria, come si era ipotizzato nel 2012. Piuttosto, ha perseguito compostamente una strategia diplomatica fondata sulla sicurezza condivisa e sui traffici commerciali insieme agli Stati del Golfo. Anche l'Iran è riuscito in qualche modo a liberarsi da gran parte degli effetti delle sanzioni occidentali. Si è unito ai BRICS e alla SCO e ha acquisito una nuova "profondità spaziale" in economia e in politica.
Che piaccia o meno agli Stati Uniti e all'Europa, l'Iran è un attore politico regionale di primo piano e sovrintende, insieme ad altri, alla coalizione di movimenti e fronti di resistenza che grazie a un'accorta diplomazia sono riusciti a operare in stretta collaborazione tra loro.
Questo sviluppo è diventato un'iniziativa strategica fondamentale: i sunniti di Hamas e gli sciiti di Hezbollah si uniscono ad altre formazioni in una lotta di liberazione anticoloniale sotto il simbolo non settario di Al-Aqsa. Al-Aqsa non è né sunnita, né sciita, né dei Fratelli Musulmani, né salafita né wahhabita; rappresenta piuttosto la storia della civiltà islamica. Sì: si tratta anche di un riferimento a suo modo escatologico.
Quest'ultimo sviluppo si è rivelato importante per esorcizzare lo spettro di una guerra totale nella regione (incrociamo le dita...). L'interesse dell'Asse della Resistenza con l'Iran è duplice: In primo luogo, mantenere il potere di calibrare finemente l'intensità del conflitto aumentandone o diminuendone la portata a seconda dei casi; in secondo luogo, mantenerne il più possibile il controllo della escalation.
Il secondo aspetto riguarda la capacità di sopportazione intesa in termini strategici. I movimenti della Resistenza conoscono bene la psiche sionista, pertanto non ammettono reazioni in stile riflesso pavloviano alle provocazioni dello stato sionista. Piuttosto, sono capaci di aspettare e di lasciare che sia proprio lo stato sionista a fornire il pretesto per qualsiasi ulteriore passo avanti nella gradualità dell'escalation. A dare il via all'escalation deve essere lo stato sionista: la Resistenza risponde soltanto. L'attenzione deve concentrarsi sulla psiche politica di Washington.
In terzo luogo, l'Iran può essere sicuro di essersi comportato in modo lungimirante perché ha introdotto un cambiamento sostanziale nella guerra asimmetrica e nella deterrenza nei confronti dello stato sionista e dell'Occidente. Gli Stati Uniti possono dare tutti i segni di insofferenza che vogliono, ma l'Iran ha sempre potuto contare sul fatto che essi conoscono bene i rischi che qualsiasi loro tentativo di rovesciare il tavolo potrebbe comportare.
I realisti in Occidente tendono a credere che la potenza sia una semplice funzione di due grandezze: la popolazione di un paese e il suo prodotto interno lordo. Quindi, data la disparità di potenza aerea e di fuoco, in nessun modo ad esempio Hezbollah potrebbe sperare di tenere testa a uno stato sionista che è molto più ricco e popoloso.
Questo punto cieco è l'alleato silenzioso della Resistenza, perché impedisce alla gran parte dell'Occidente di comprendere questo cambiamento di mentalità militare.
L'Iran e i suoi alleati hanno una visione diversa: ritengono che la potenza di uno Stato si basi su elementi intangibili, piuttosto che su elementi tangibili letterali: la capacità di sopportare sul piano strategico, l'ideologia, la disciplina, l'innovazione e il concetto di leadership militare, definito come la capacità di affascinare gli uomini in modo che seguano il loro comandante anche fino alla morte.
L'Occidente ha (o aveva) un potenziale e una superiorità aerea incontrastati, ma i fronti della Resistenza hanno elaborato un loro modo per tenerle testa, ripartito in due diversi aspetti. Innanzitutto hanno messo in produzione droni a sciame assistiti dall'intelligenza artificiale e missili intelligenti in grado di volare rasoterra. E questa è la loro forza aerea.
Il secondo aspetto prevederebbe naturalmente lo sviluppo di un sistema di difesa aerea ripartito in fasce, secondo lo stile russo. La Resistenza possiede qualcosa di simile? Su questo, tutti svicolano come Fratel Coniglietto.
La strategia di fondo della Resistenza è chiara: l'Occidente ha investito troppo per conseguire la supremazia aerea e una potenza di fuoco schiacciante; dà la priorità a rapide manifestazioni in stile shock and awe, ma si esaurisce rapidamente dopo le prime fasi dello scontro. Raramente esso è in grado di sostenere attacchi ad alta intensità che si protraggano a lungo. In Libano nel 2006 Hezbollah è rimasto in profondità sottoterra mentre l'aeronautica sionista gli imperversava sopra la testa. I danni fisici in superficie sono stati enormi, ma gli effettivi di Hezbollah non ne sono stati intaccati e sono entrati in azione solo in seguito. Poi ci sono stati i trentatré giorni in cui Hezbollah ha continuato a lanciare missili, fino a quando lo stato sionista non ha desistito. Questa capacità di resistere rappresenta il primo pilastro della strategia.
Il secondo punto di forza è dato dal fatto che mentre l'Occidente riesce a resistere solo per brevi periodi, la Resistenza si è addestrata e preparata per un lungo conflitto di logoramento che contempla il ricorso a un bombardamento di missili e di razzi fino al punto in cui la società civile non può più sostenerne l'impatto. Lo scopo della guerra non è necessariamente l'uccisione dei soldati nemici, ma piuttosto arrivare a esaurire l'avversario e a inculcargli il senso della sconfitta.
E che dire del progetto di opposizione?
Nel 2012 ho scritto:
Sembra che sia lo stato sionista che [il mondo islamico] stiano dirigendosi di concerto vereso il ricorso a [narrazioni escatologiche] che li stanno portando lontano dai concetti di fondo, in gran parte laici, con cui questo conflitto è stato tradizionalmente concettualizzato. Quali saranno le conseguenze, dato che in questo modo il conflitto per sua stessa logica diventa uno scontro tra poli religiosi [Al-Aqsa contro il Monte del Tempio]?
Ebbene, l'Occidente è rimasto bloccato nel tentativo di gestire e contenere il conflitto, ricorrendo proprio quei "concetti in gran parte laici" con cui esso è stato concettualizzato e gestito... o non gestito, si potrebbe dire. Così facendo l'Occidente, anche attraverso il sostegno (laico) a una particolare visione escatologica -che guarda caso si sovrappone alla sua- in contrapposizione a un'altra, alimenta inavvertitamente il conflitto.
È troppo tardi per tornare a ragionarne in termini laici; ormai il genio è uscito dalla lampada.