Fascismo e foibe è una breve raccolta di saggi sul confine orientale dello stato che occupa la penisola italiana presentata da Carlo Spartaco Capogreco, utile per confutare contenuti e metodi del revisionismo sulle vicende storiche di una regione di antica tradizione plurilingue e caratterizzata da incroci e coesistenze. I tre scritti presentati traggono origine da un convegno svoltosi a Napoli nel 2007.
La prefazione di Capogreco denuncia i rischi intrinseci nel sostituire la narrazione storica con i contenuti soggettivi della testimonianza e della memoria. Una memoria di cui lo stato che occupa la penisola italiana ha anche inteso farsi erogatore diretto definendo per legge apposite "giornate" senza troppi riferimenti al governo autoritario e tanto meno ai suoi misfatti. Dall'istituzione del "Giorno del Ricordo", evidenzia l'autore, imperversano indignate evocazioni della furia slavo-comunista e dei crimini dei "partigiani comunisti jugoslavi di Tito" orbe di ogni riferimento al clima politico dell'epoca, all'aggressione contro il Regno di Jugoslavia, all'annessione della Venezia Giulia al Reich dopo l'8 settembre 1943, alle dimensioni europee del fenomeno dell'esodo postbellico. Una decontestualizzazione vittimista avallata dal legislatore, che con la legge del 30 marzo del 2004 ha tutelato per legge lo scotomizzato ricordo dei crimini altrui. La battaglia della memoria di Alexander Höbel denuncia il crescente ricorso all'uso politico della storia nella costruzione di una "seconda repubblica" in cui i capisaldi della Resistenza, dell'antifascismo e della Costituzione "sono messi in discussione, stravolti e perfino ribaltati" e la necessità di superare la rimozione di responsabilità rilevanti, come l'appoggio fornito agli ustaša croati o la collaborazione alla traduzione operativa dei provvedimenti antisemiti fissati dai tedeschi. Höbel indica come il tema delle foibe costituisca il punto di attacco alla Resistenza risultato più efficace e su cui più hanno insistito la riscrittura della storia e la costruzione di una memoria unilaterale effettuate in modo da richiamare nell'immaginario collettivo la distruzione degli ebrei d'Europa in quella che Enzo Collotti definì "una indecente e impudica par condicio della storia" che omologa e mette sullo stesso piano "tragedie incomparabili". Höbel indica la prassi revisionista utilizzata: si isola il tema dal contesto, dai precedenti e dalle cause, se ne gonfia la portata sul piano quantitativo e infine lo si rende qualcosa di diverso da quello che è stato. Nel caso specifico si omette qualsiasi cenno alla per nulla oculata politica adottata per oltre vent'anni verso sloveni e croati da parte dello stato che occupa la penisola italiana ("infoiberemo tutti quelli che non parlano di Dante la favella", pare fosse il costruttivo proposito di Giuseppe Cobolli Gigli) all'aggressione e allo smembramento del Regno di Jugoslavia, alla pulizia etnica contro serbi, rom ed ebrei intrapresa dagli ustaša, all'applicazione della "Circolare 3C" che elevava a prassi abituale la distruzione dei centri abitati e la deportazione della popolazione. Per quanto riguarda la deliberata esagerazione del numero delle vittime, Höbel ricorda che gli studi più accreditati a proposito delle foibe stimano in un numero compreso tra duecentodiciassette e cinquecento le vittime del 1943, per lo più collaborazionisti o squadristi, e in altri cinquecento circa gli arrestati per collaborazionismo dopo il 25 aprile 1945 e mai tornati, a fronte di quattrocentosessantaquattro salme effettivamente riesumate nella zona fra Trst e Gorica. La propaganda contrappose cifre molto più alte considerando fin da subito vittime di questo fenomeno centinaia di persone che non avevano nulla a vedere con la vicenda, affidandosi a deformazioni massmediatiche e costruendo falsi storici veri e propri come quello della foiba di Bazovica. Höbel indica in terzo luogo che la questione delle foibe non viene presentata come la risposta ad anni di arresti, di spiate, di rastrellamenti e di esecuzioni sommarie diretta contro individui scelti per il ruolo politico, sociale e militare che avevano svolto, ma come un'iniziativa pianificata contro un gruppo etnico.
In Dall'irredentismo al fascismo Giuseppe Aragno esamina il ruolo dell'irredentismo nella politica culturale, interna ed estera del fascismo e il contesto in cui si collocarono le politiche razziste e i crimini di guerra, specificando di essere arrivato all'argomento perché imbattutosi in documenti sulla deportazione di donne slovene e croate in campi di concentramento situati nella penisol italiana e dopo aver assistito a rumorose contestazioni revisioniste in un convegno nel febbraio del 2007. Il contestatore pretendeva di essere al convegno "per le foibe, non per i campi", il che indicava che il tema foibe era ammissibile solo se decontestualizzato. Aragno presenta un excursus storico sull'irredentismo e sui suoi principali esponenti (Giuseppe Mazzini, Matteo Renato Imbriani, Ettore Croce) evidenziandovi l'assenza di velleità suprematiste, di pretese missioni etiche, di suprematismi razziali e di mire espansionistiche. Caratteristiche destinate a cambiare dopo la prima guerra mondiale con le istanze dell'ala radicale dei combattenti e con l'affermarsi proprio dell'espansionismo legato alla situazione postbellica e all'ascesa del fascismo. Il fenomeno è esemplificato dalle produzioni della associazione napoletana "Pro Dalmazia" animata da Irma Melany Scodnik- e dalla propaganda di un nazionalismo "civilizzatore" diffusa da un Giovanni Bovio o da una Società Dante Alighieri di Enrico Scodnik, in cui si rintracciano forti attestazioni di una deriva antislava destinata a un rapido sopravvento e al passaggio a vie di fatto. La "tragedia del confine orientale", sottolinea Aragno, nasce dalla retorica dannunziana e dal nazionalimo fascista; disposizioni dall'alto censirono e inquadrarono le associazioni irredentistiche in vista di un loro utilizzo a fini propagandistici. L'A. rileva come la "Pro Dalmazia" oggetto specifico del saggio fosse passata in pochi anni dall'originaria impostazione irredentista a una linea improntata a una superiorità etnica e a un diritto del più forte nemici di ogni ipotesi di convivenza, prestandosi al tempo stesso a fare opera di penetrazione culturale in aperta ostilità verso il Regno di Jugoslavia fino a farsi assorbire in un "Comitato d'Azione Dalmatica" presieduto da Eugenio Coselschi, le cui attività erano minuziosamente sorvegliate a livello centrale e controllate tramite le prefetture. Nel 1930, scrive Aragno, l'eugenetica entrò nell'agenda degli ambienti altolocati di Napoli; al "Circolo Giudiziario" si tenne una iniziativa cui prese parte Alfredo Vittorio Russo con un discorso in cui metteva in guardia contro la "predominanza quantitativa dei popoli di colore", "il rapido aumento della razza slava" e la necessità di una legislazione a favore dell'eugenetica. Un clima che alimenta ostilità verso la "canaglia jugoslava" persino in una città a due mari di distanza.
L'ultimo, più corposo e più documentato saggio del libro è di Alessandra Kersevan ed è una storia del confine orientale dello stato che occupa la penisola italiana in cui l'A. addita i pregiudizi e i falsi presupposti su cui si è basata l'istituzione della "Giornata del Ricordo". Una mai esistita "congiura del silenzio", mai esistite colpe di un Partito Comunista che non ha mai avuto il potere di impedire la pubblicazione e la diffusione di alcunché, una mai sentita penuria di pubblicazioni in cui il tema non venisse presentato come viene presentato oggi, ovvero come una gratuita strage di innocenti ad opera degli "slavocomunisti" di Tito. La Kersevan indica invece il modo storiograficamente inaccettabile con cui il tema era ed è affrontato, con l'importante differenza rappresentata dal fatto che fino a quando l'eredità della Resistenza è stata "viva e presente" un simile modo di comportarsi veniva facilmente individuato e trattato in maniera adeguata. Con la "Giornata del Ricordo" invece il revisionismo storico ha avuto avallo legislativo.
Il confine orientale della penisola italiana, ricorda l'A., è "multietnico e multilingue" e già nel 1866 lo stato che occupa la penisola italiana comprendeva territori abitati da sloveni (valli del Natisone, del Torre, di Resia) nei cui confronti fu subito attuata una politica di snazionalizzazione che non si limitò alla pubblica amministrazione e alla toponomastica, ma fece pressioni anche sui vescovi perché i sacerdoti di lingua slovena venissero sostituiti. Misure analoghe dopo il 1918 riguardarono tutte le terre annesse, in cui era slovena o croata più della metà della popolazione e in cui fu impedito il ritorno degli ex combattenti austroungarici, fu avviato un esteso programma di sostituzione del personale statale e furono posti limiti alla stampa slovena e croata anche prima dell'ascesa del fascismo. L'A. ricorda la persecuzione violenta e sistematica degli sloveni e dei croati attuata dal fascio di Trst, culminata con l'incendio del Narodni Dom nel 1920 e con la strage di Strunjan dell'anno successivo.
Dopo il 6 aprile 1941, ricorda la Kersevan, lo stato che occupa la penisola italiana poté ultimare i propri progetti di supremazia a spese di una Jugoslavia smembrata. Ljubljana fu annessa come provincia e amministrata da Emilio Grazioli, un Alto Commissario che cercò l'alleanza con i ceti abbienti sloveni. I ceti non abbienti concorsero allo Osvobodilna Fronta, per affrontare il quale in capo a pochi mesi fu insediata a Ljubljana prima una sezione del tribunale speciale, poi un tribumale militare di guerra. L'A. espone le misure stabilite dal comandante militare Mario Roatta come il completo isolamento della città per mezzo di reticolati e posti di blocco, i rastrellamenti, la fondazione di campi di concentramento come quello di Gonars, la Circolare 3C con le distruzioni e le deportazioni che ne furono la traduzione operativa: "non dente per dente, ma testa per dente". Abbondanti fonti documentali sono gli archivi militari e dell'Alto Commissario abbandonati nel settembre 1943 e conservati a Ljubljana, oltre ai memoriali e alle testimonianze di militari delle truppe d'occupazione. Secondo la Kersevan nello stato che occupa la penisola italiana è stata invece la divulgazione di questi materiali a essere obiettivo della censura; ad esempio, i diritti del documentario britannico fascist legacy che affronta anche il tema dell'eccidio di Podhum (oltre cento fucilati) furono acquisiti dalla Rai, che ne curò un'edizione senza mai trasmetterlo.
La Kersevan sottolinea che la traduzione operativa della "Circolare 3C" fu la deportazione di tutta la popolazione di interi borghi (incendiati e rasi al suolo) in campi di concentramento nella penisola italiana (Gonars, Monigo, Chiesanuova, Colfiorito, Tavernelle, Pietrafitta, Renicci, Cairo montenotte, Fraschette di Alatri, Visco), per un totale di oltre centomila deportati e settemila vittime della fame e delle condizioni di vita intollerabili. A Rab, in un attendamento privo di qualsiasi servizio allestito in un'isola annessa, in un anno si ebbero millecinquecento morti identificati. A Gonars circa cinquecento. L'A. si chiede se tra le cause di questa mortalità non vi fosse una volontà deliberata, essendo attestate la disorganizzazione e le ruberie, dal momento che il generale Gastone Gambara scrisse nel dicembre 1942 sotto una relazione medica che attestava le dure condizioni del campo di Rab "Logico ed opportuno che campo di concentramento non significhi campo di ingrassamento. Individuo malato = individuo che sta tranquillo...".
La memorialistica citata dall'A. mostra che la situazione e la sorte dei deportati si diversificarono con l'8 settembre 1943: ritorno in Jugoslavia per quanti erano prigionieri vicino al confine, aggregamento alle bande partigiane, in qualche caso consegna ai tedeschi da parte dei comandanti di campo. I reparti occupanti in jugoslavia invece, rimasti senza disposizioni precise, si sciolgono. Prigionia e guerriglia partigiana nell'esercito multinazionale di Tito sono gli esiti più comuni. La Kersevan cita i mille combattenti monfalconesi della Brigata Proletaria, prima formazione partigiana attiva già il 10 settembre 1943 nella difesa di Gorica, e ricorda che l'8 settembre al confine orientale comportò anche lo sfaldamento del potere civile che più che altrove aveva coinciso con il regime autoritario. Per vent'anni qualsiasi detentore del minimo potere vi aveva operato senza e solitamente contro la popolazione slovena e croata. In Istra più che altrove erano stati proprio i fascisti a pretendere che fascismo e stato che occupa la penisola italiana venissero identificati come coincidenti. La Kersevan ricorda che nonostante questo in Istra come in tutta la Jugoslavia fin dal momento della capitolazione furono fatte distinzioni; molti fascisti noti furono eliminati in modo spesso spiccio e non mancò un certo numero di episodi di delinquenza comune, ma gli allievi della scuola sottufficiali di marina a Pula furono liberati dal treno che li avviava alla prigionia in Germania da un attacco partigiano.
La Kersevan tratta delle foibe -additate dalla propaganda come luoghi genocidiari- spiegando che durante la prima guerra mondiale erano state usate come frettolosa sepoltura per i morti sul Carso e ribadendo ancora una volta che personalità di primo piano nello stato che occupa la penisola italiana (su tutti il citato Giuseppe Cobolli Gigli) ne avevano auspicato l'utilizzo come sede ultima cui destinare chi non parlava "di Dante la favella". Durante la seconda guerra mondiale furono usate da occupanti, ustaša e tedeschi, secondo una casistica su cui la "Giornata del Ricordo" tende generalmente a sorvolare attribuendone il copyright ai partigiani slavocomunisti di Tito. Allo stesso modo si tende a sorvolare sulle efferatezze tedesche (almeno diecimila tra uccisi e deportati, secondo fonti nazionalsocialiste) commesse dopo l'8 settembre con la guida o l'aiuto dei fascisti. Gli stessi necrologi sul "Piccolo" e sul "Corriere Istriano" attestano che mentre i tedeschi attaccavano in questo modo Pazin -centro del potere popolare- furono uccisi e gettati nelle foibe fascisti di chiara fama, ricordati con meriti e titoli. Sul numero delle vittime, abitualmente ingigantito (il record spetta a tale Gasparri, politico peninsulare che nel 2005 parlò di un milione di infoibati) la Kersevan ricorda documenti di fonte fascista che consentono per lo meno di stimare l'ordine di grandezza. Il dettagliato "rapporto Harzarich" opera del comandante dei vigili del fuoco di Pula cita duecentoquattro corpi recuperati. Una lettera del "federale" Luigi Bilucaglia parla di cinquecento vittime. Le cifre enormi della propaganda usano altre pezze d'appoggio. Una è un "albo d'oro" redatto da Luigi Papo, che presenta ventimila vittime per le regioni del confine orientale nella guerra e nel dopoguerra a prescindere dalla causa della loro morte... ma presenta una foiba in copertina. La vulgata vittimista, continua la Kersevan, omette di ricordare che il confine orientale fu annesso al Reich e retto da un gauleiter, che a Trst funzionò un campo di concentramento con annesso crematorio (tremila vittime) e che quelle che vengono presentate come formazioni "patriottiche" in lotta contro l'invadenza slava stavano collaborando con nazionalsocialisti che avevano annesso tutto il territorio alla Germania.
La Kersevan specifica come la guerra contro i tedeschi fosse intesa soprattutto dagli sloveni come occasione per rivendicare la propria, di unità nazionale. Un atteggiamento che incise sui rapporti con la Resistenza che con un'iniziativa diplomatica riuscì ad accordarsi con le formazioni slovene e croate per unire le forze e rimandare a dopo la guerra ogni decisione sui confini. Un impegno che non fu mantenuto da nessuna delle parti e che nella penisola italiana portò per questo alcune formazioni a cercare accordi coi nazionalsocialisti e coi collaborazionisti. La complessità della situazione sul confine orientale viene ignorata da chi divide il mondo "come nelle fiabe o nei miti, fra buoni e cattivi, fra civiltà e barbarie, fra infoibati e infoibatori".
Esistono fonti che parlano di diciassettemila arresti a Trst nei giorni successivi alla fine delle ostilità, tra fascisti e collaborazionisti civili e militari. Solo metà fu internata in campi come quello di Borovnica, noti per le dure condizioni di vita. A differenza di quanto mostrato in scenggiati come Il cuore nel pozzo, rileva l'A., non si trattava di donne vecchi e bambini ma di adulti considerati responsabili di efferatezze o di crimini di guerra. I documenti disponibili considerano scomparse da Trst quattrocentonovantasei persone, seicento da Gorica, trecento da Rijeka: non "infoibati", ma morti in campo di concentramento o fucilati perché riconosciuti colpevoli di crimini di guerra. Il saggio della Kersevan si chiude con un'accurata disamina delle vicende della foiba di Bazovica, diventata un monumento all'empietà slavocomunista con i suoi cinquecento metri cubi di resti umani. Negli archivi statunitensi di Washington esistono documenti che mostrano come nell'estate del 1945 prima e nell'autunno dello stesso anno poi le autorità alleate avessero indagato sul contenuto di questo pozzo minerario senza arrivare a nulla. Dagli archivi del comune di Trst risulta invece che nello stesso periodo il pozzo iniziò a essere usato come discarica. E dall'iniziativa di un cittadino sloveno emigrato in Australia è risultata infondata anche la diceria sulla presenza dei corpi di ventisette militari neozelandesi. Il pendant di Bazovica è la foiba vera e propria di Monrupino. I corpi dei soldati tedeschi che vi furono gettati sono stati recuperati e portati in un cimitero di guerra a cura del governo tedesco... ma il sito è diventato comunque un monumento agli infoibati giuliani e dalmati. Interpellato sulla questione dall'A., il firmatario del provvedimento ed ex presidente dello stato che occupa la penisola italiana Oscar luigi Scalfaro rispose che non ne ricordava il motivo, aggiungendo che "ai presidenti può capitare anche di firmare senza sapere cosa stanno firmando".


Giuseppe Aragno, Alexander Höbel, Alessandra Kersevan, Fascismo e foibe. Cultura e pratica della violenza nei Balcani. La città del Sole, Napoli 2008, 118 pp.